A proposito di vacanze. Sono stato bambino durante la guerra e poi ragazzo nei primi anni del dopoguerra, quando il mondo si divideva fra chi andava in villeggiatura e chi non si allontanava mai da casa. La mia famiglia apparteneva alla seconda categoria. Abitavo ad Asti, una piccola città del Piemonte; mio padre era tipografo e mia madre pettinatrice. D’estate mi mandavano in campagna dai nonni materni e con i miei cugini formavo una banda di piccoli selvaggi. Si rubava la frutta ancora acerba e nelle ore più calde si faceva il bagno in Tanaro, il fiume a poche centinaia di metri da casa. Prima di tornare in città mia madre mi minacciava: «Se anneghi in Tanaro ti ammazzo!». Le rispondevo: «Come fai ad ammazzarmi se sono già morto?». E lei: «Tu non pensarci, lo so io».
Nelle estati di guerra una zia che non si era sposata e viveva con i nonni, aveva il compito di sorvegliarci. Lo faceva con lo strumento di solenni promesse: «Se state bravi per tutto il giorno, questa sera vi porto su in collina a veder bombardare Torino». Visti da lì sembravano più che altro fuochi d’artificio. Se poi quella sera non c’erano bombardamenti a noi sembrava di aver sprecato i nostri sforzi, di essere stati bravi per niente. Per vedere il mare ho dovuto aspettare la fine della guerra. Per merito di un’altra zia, Emma, sorella di mia madre che viveva in casa nostra, lavorando come apprendista nel negozio. Aveva solo sedici anni più di me e, scoppiata la pace, aveva sposato un toscano conosciuto mentre era militare nella nostra città. Era andata ad abitare a Livorno, in casa dei suoceri e d’estate mi ospitava.
Si viaggiava con un treno che da Asti a Livorno impiegava ventiquattro ore. Faceva un numero infinito di soste e andava talmente piano che il vagone merci che ci trasportava aveva i portelli aperti consentendoci di viaggiare seduti sul bordo con le gambe penzoloni. Livorno era distrutta dalla guerra. La casa degli zii si trovava in via de Larderel, vicino al Cisternone, il monumentale serbatoio dell’acqua. Mi portavano al mare, alla spiaggia libera piena di scogli, seduto sulla canna della bicicletta. Ma solo nei giorni in cui mio zio ferroviere era a casa dal lavoro.
Mia zia era un’appassionata lettrice, in casa c’era una cassapanca piena di libri. Le piacevano Riccardo Bacchelli, Guido da Verona, Alfredo Panzini, Virgilio Brocchi, un autore prolifico che aveva sfornato nei primi decenni del Novecento una cinquantina di romanzi. Non mancavano gli ungheresi, fra i quali il famoso Ferenc Körmendi, l’autore di Un’avventura a Budapest. Se non andavo al mare, me ne stavo in casa a leggere, ero troppo giovane per andare in giro da solo. Interi pomeriggi appollaiato su una sdraio sotto il davanzale della finestra; quando dopo ore mi alzavo mi girava la testa. Un giorno la zia mi mise in mano L’isola del tesoro, di Stevenson. Fu una folgorazione. Da allora non ho più smesso di leggere. La mia insegnante di matematica mi prestava gli Omnibus Mondadori: Via col vento, Le novelle per un anno di Pirandello, ecc.
Molti anni or sono ero in una libreria romana con Andrea Camilleri, alla presentazione di un suo romanzo. Una signora domandò: «Cosa possiamo fare per convincere i nostri figli a leggere?» Camilleri rispose: «La nostra fortuna sono state le malattie esantematiche – la varicella, la rosolia, la scarlattina – che ci costringevano a letto isolati per almeno una settimana senza doveri scolastici. E le lunghe vacanze chiusi in casa. Fu così che la mia generazione si buttò sui libri. Ricordo, d’estate, pomeriggi così assolati che non si poteva neanche uscire. Stavo in casa con le persiane abbassate».
Tornando alle mie avventure di lettore, un grande contributo l’hanno dato anche i rimproveri di mia madre che non approvava il mio stile di vita: «Smettila di leggere che diventi cieco, tisico, gobbo e rachitico. Vai a giocare con i tuoi compagni». La sera leggevo a letto e lei entrava in camera a spegnere la luce costringendomi a proseguire di nascosto, sotto le lenzuola, con l’aiuto di una pila. Ad Asti frequentavo la biblioteca civica che, come tutte le istituzioni astigiane, era intitolata a Vittorio Alfieri.
I libri si potevano solo leggere sul posto, era vietato portarli a casa. Nessuno mi aveva insegnato a compilare il modulo per la richiesta di un libro; aprivo il cassetto, sfogliavo le schede con segnature complicatissime – lettere, numeri arabi e romani, cancellature – cercavo di non fare errori e consegnavo il foglietto al bibliotecario, un ex portiere della squadra di calcio della città ritornato dalla Russia con i piedi congelati. Lui si avviava a cercare il libro, muovendosi lentamente con grandi pantofole, come se pattinasse. Spariva nei meandri della casa natale di Alfieri e quando ritornava sovente aveva tra le mani un testo diverso da quello che avrei voluto leggere. Non osavo fargli presente l’errore perché magari era colpa mia. Mi sedevo al tavolo e leggevo il testo estratto a sorte; al posto di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne, un trattato sulla lotta alla peronospera, un fungo che colpiva i vigneti.
Devo ancora leggere il romanzo di Verne e prima o poi lo farò. In compenso sono in grado di tenere una conferenza sulla coltivazione della vite e sui parassiti che la minacciano. Ho imparato che tutti i testi parlano, basta saperli ascoltare.