I social uccidono la democrazia

/ 13.11.2017
di Paola Peduzzi

Testimoniando davanti al Congresso americano, i vertici di Facebook, Twitter e Google hanno ammesso che l’ingerenza di «agenti stranieri» – leggi: i russi – nella campagna elettorale americana del 2016 è stata elevata, ma hanno rimandato al mittente ogni accusa di incompetenza manageriale, sottolineando che di fatto il controllo degli utenti non è così capillare come può sembrare da fuori. Forse il pagamento in rubli (ben al di sopra della media) di pubblicità politiche avrebbe dovuto insospettire i manager di questi colossi tech, ancor più dal momento che una grande quantità di ricerche mostra che sempre più persone si informano su internet e sui social media e che la responsabilità, in questo senso, da parte dei gestori di queste piattaforme diventa più rilevante. Forse il mea culpa dovrebbe essere un po’ più sentito, come chiedono anche molti imprenditori del settore che vedono il loro business in pericolo di credibilità mentre «i grandi» cercano di schivare le accuse. Ma i dati sono pazzeschi: secondo le stime stesse di Facebook, i contenuti della propaganda russa, tra post e pubblicità a pagamento, hanno raggiunto 126 milioni di americani, cioè il 40 per cento della popolazione del Paese. YouTube, piattaforma video di proprietà di Google, ha confermato di aver trasmesso 1108 video legati alla propaganda russa, mentre gli account di Twitter di questo genere ammontano a 36’746. Faremo di tutto per contrastare queste ingerenze, dicono in coro i colossi, ma come ha detto placido un senatore durante le testimonianze: mai sentito tanto senno di poi tutto insieme. Bisognava muoversi prima, forse ora il contrasto non è più possibile.

Mettendo in copertina la «f» di Facebook a mo’ di pistola, l’«Economist» è andato dritto al punto: i social media uccidono la democrazia. E sì che sembrava che dovesse andare tutto al contrario. Le primavere arabe furono animate dai social, anzi, senza quella mobilitazione sulla rete, più difficile da reprimere, spesso più rapida delle armi delle polizie dei regimi, quel moto di rivoluzione non ci sarebbe stato: non pensiamo a come sono andate a finire le primavere – la responsabilità nostra è, anche in quel caso, rilevantissima – ma al fatto che ci siano state e che abbiano creato un primo, enorme scossone democratico a una terra fondata sulle dittature. I social esportavano la democrazia, per usare un’espressione molto usata quanto non sempre fortunata. Non soltanto in Medio Oriente: il primo appuntamento «europeista» nella piazza del Maidan, nella capitale ucraina di Kiev, fu dato da un giornalista su Facebook. Tre mesi più tardi, l’allora presidente Yanukovych scappò dalla città. Ma quell’idealismo da attivisti dei social è andato perduto, e come scrive il magazine britannico, «ben lontani da portare l’illuminismo, i social media hanno disseminato veleno».

Così come i social non erano la causa delle rivoluzioni arabe, allo stesso modo i social non sono la causa della rabbia e dell’insofferenza di una gran fetta di mondo. È che i social amplificano polarizzazioni e scontri, con effetti distorsivi sui processi democratici. E poiché, a differenza delle televisioni o dei giornali che pure sono spesso molto polarizzati, i social implicano una interazione, le loro chances di colpire il proprio pubblico dritto al cuore sono molto alte. Così si genera un circolo vizioso, dal quale emergono teorie del complotto, ideologie estremiste, istinti che parevano sopiti dalla storia: il veleno appunto. Il fatto che ad approfittarne siano stati prima di tutti i russi rende il problema naturalmente più grave: l’opera di destabilizzazione dell’Occidente, che è la strategia introdotta ormai da un decennio da Putin, ha trovato nell’irresponsabilità del management dei social media un terreno fertile. Stiamo scoprendone gli effetti nella campagna elettorale americana dell’anno scorso – l’inchiesta è in corso – ma anche i processi democratici europei sono stati condizionati dall’ingerenza russa. Che è sempre più sofisticata, e credibile. Esperti del calibro di Anne Applebaum, saggista e studiosa dell’influenza della Russia moderna sull’Occidente, dicono che Mosca è riuscita per prima a sfruttare le distorsioni dei social per affinare la propria propaganda: cosa accadrà quando anche altri paesi o enti anti democratici sfrutteranno lo stesso modello? Molti se lo chiedono, per ora la risposta non c’è: a consolarci c’è il fatto che gli antidoti ai destabilizzatori della democrazia si sono sempre trovati nella democrazia stessa, che come garanzia di sopravvivenza non è poco.