I social ai tempi dei greci

/ 16.04.2018
di Maria Bettetini

E come fai a sopravvivere? È la domanda, spero anche ironica, di un amico alla notizia che non mi avrebbe trovato su Facebook. Da qui si deducono alcuni fatti incontrovertibili: la nostra età avanzata, la dipendenza degli anziani dai social, la difficoltà degli stessi a cambiare, a passare da un media obsoleto ai più recenti Telegram e compagni. In questi giorni poi è facile parlare di Facebook per tutte quelle identità digitali vendute. Come se non fosse strana tutta questa gratuità, anche quella di ottenere un proprio profilo digitale, una sorta di carta d’identità. Gratis, sì, ma a che scopo? E ora si è capito, il fine era quello di suddividere l’umanità secondo classi di elettori e compratori.

Ma i discorsi su privacy, diritto al segreto e intimità rischiano di essere ormai triti, ormai un po’ inutili, ora che con i buoi sono scappati anche i contenuti di milioni di vite. A meno che non siano i grandi filosofi a intrattenerci sull’argomento. Non partendo dalla teoria, ma dalla loro stessa vita social. Il primo grande interrogativo riguarda Socrate: per «spogliare le anime», come scrive Platone nel Carmide, è sufficiente discutere sui social? Per togliere all’interlocutore tutte le certezze, per fargli capire quanto è ignorante, per fargli «sapere di non sapere» basterà uno scambio di opinioni? Forse sì, perché Socrate aborriva le parole scritte, che «orfane del padre» rotolano in giro per il mondo e possono essere interpretate anche malamente, certo in mille modi diversi. Però le parole scritte sui social non saranno mica da annoverare tra le scritture vere e proprie: si cancellano anche subito, cadono in un mare di immagini e sillabe, sono alla portata di tutti… anche se è vero che se siete attenti spettatori di serie poliziesche saprete che quando un cattivo scrive qualcosa o posta un’immagine, anche a distanza di tempo e spazio si ritrova tutto. Un dilemma. Potremmo incoraggiare Socrate: se vuoi parlare ai giovani, e certo lo vuoi, devi usare il loro linguaggio. Quindi non dirai «ma dimmi, Trasimaco, non pensi tu che ci sia più felicità nel subire ingiustizia piuttosto che nel farla?», quanto piuttosto: «Trasi,  (faccetta felice) è (faccetta sottomessa), non (faccetta infuriata), capito raga?». Solo così i ragazzi ti ascolteranno e capiranno.

Mentre Socrate valuta il possibile successo di una nuova versione della Repubblica, in cui dialoga appunto sulla giustizia, noi ci rendiamo conto di non aver ancora ricevuto insegnamenti sull’uso dei social, quindi lo lasciamo riflettere e ci volgiamo a qualcuno di più concreto. Non i Cinici, se devono tenere su la botte con cui si vestono, come Diogene, non hanno più mani per un computer o uno smartphone. Nemmeno Stoici ed Epicurei, così attenti a non farsi turbare da eventi esterni che verrebbero presi da crisi isteriche al veloce succedersi degli avvisi di arrivo messaggi. In fondo i Greci tutti, a ben vedere, avrebbero grandi problemi ad essere social: e se mi chiede l’amicizia uno schiavo? O una donna, o uno straniero, che magari celano la propria identità? Troppo rischioso, l’amicizia è per pochi e per pari, quindi è possibile solo tra uomini liberi e nati nella stessa città. Molto poco social. Bisognerà cercare tra i filosofi già abituati a vivere in società un po’ più variegate, per esempio i cosiddetti «clerici vaganti», gli studenti che nei primi decenni di vita delle università si spostavano di città in città per seguire le lezioni più interessanti. A Bologna per la giurisprudenza, a Salerno per la medicina, a Parigi per la filosofia, con i testi tranquillamente in latino, in greco, in arabo, oppure in una delle lingue volgari. Questi ragazzi sì, che avrebbero saputo trarre profitto dai social.

Oggi Tommaso d’Aquino interroga? Sì, sulla Summa contro i Gentili. Ah ma non preoccuparti, chiede sempre la parte sulle virtù e i vizi, basta ripassare quella. Le chat tra Parigi e Bologna avrebbero avuto questo tenore, magari con l’uso di lettere greche o arabe al posto degli emoticon, quasi un codice segreto. E vogliamo che non avesse codici segreti nel Seicento un diplomatico come Gottfried Wilhelm von Leibniz? Incaricato dagli Hannover di scrivere la loro storia e di rappresentarli come diplomatico in giro per l’Europa, Leibniz fu un grande filosofo e matematico, fu lui che tra le altre cose trasse dall’antico libro cinese Sui mutamenti, o I Ching, l’idea del sistema numerico binario, poi «riscoperto» nell’Ottocento da George Boole e oggi alla base di ogni linguaggio dei computer. Un I-pad o uno smartphone saranno stati giocattolini per Leibniz, che avrà inventato codici segreti di codici segreti. Suggerendoci però una preziosa idea: può giocare con questi piccoli arnesi chi ne conosca il funzionamento. Chi sa come e dove arriverà il suo messaggio, come verrà decrittato, e a chi rischia di arrivare per sbaglio. Gli altri, è meglio che siano molto prudenti, ricordando l’ammonimento di Ludwig Wittgenstein, su quello di cui non si può parlare, è meglio tacere, per voce o per scritto o per sistema binario.