Una fotografia che arriva dagli Stati Uniti mi riporta indietro di decenni. Riproduce un angolo di un parco del Queens, a Nuova York, un monumento dedicato a Cristoforo Colombo, ma la testa è stata spaccata via lasciando in piedi solo piedistallo e nome. Mi ricorda un fatto avvenuto tanti anni fa a Lugano: il busto di George Washington in riva al Ceresio gettato nel lago. Non era nemmeno la prima volta che capitava, probabilmente si trattava sempre di bravate, quindi nulla o poco a che vedere con quanto capitato dall’altra parte dell’Oceano allo scopritore dell’America. Infatti la «decapitazione» di Colombo è un nuovo episodio di intolleranza simile ad altri accaduti a Detroit, a Baltimora, a Columbus in Ohio e in California, compiuti da gruppi che affermano di battersi per ristabilire verità e colpe sull’eccidio di nativi che ha aperto del porte alla colonizzazione dell’America e ora esigono la rimozione di tutti i monumenti dei principali protagonisti e l’abolizione di storiche feste o parate. Sottile distinzione nelle rivendicazioni: gli atti non sono contro i personaggi presi di mira, ma in favore di un rispetto del multiculturalismo e di tutte le minoranze, non importa quali e non importa se ancora esistono e chiedono questi «diritti». Fondamentale è che ogni episodio alimenti la spinta radicale che da sempre caratterizza l’azione di questi movimenti.
Nella maggior parte dei casi, in omaggio al pilatesco «politicamente corretto», i politici non osano ostacolare queste pretese, lasciando così impuniti gli oltraggi e le «decapitazioni». L’attacco contro Cristoforo Colombo ha addirittura spinto il sindaco italo-americano Bill De Blasio a mostrare disponibilità a tirar giù anche altre statue della sua città. Per consolidare la sua tendenza progressista il primo cittadino della Grande Mela ha inoltre affidato ad una commissione speciale il compito di esaminare i monumenti controversi in città, riservandosi di poi prendere una decisione. Fra i «diversi obiettivi» che i seguaci del multiculturalismo prendono di mira nelle varie nazioni anglosassoni figurano le statue degli eroi sudisti, quelle dei missionari cattolici (un solo nome: l’irlandese san Patrizio negli Stati Uniti) e in genere i monumenti ai grandi esploratori che in Asia, in Africa o nelle Americhe portarono la civiltà, ma anche (ed è quello che oggi li condanna) una colonizzazione che ha disperso culture e minoranze. Nemmeno i meriti patriottici offrono incolumità: a Londra l’ondata di iconoclastìa, sdoganata con intenti di moralizzazione, punta a distruggere la statua di Lord Nelson, disonorato per aver difeso la schiavitù.
Non ho gli strumenti per giudicare questa nuova offensiva del multiculturalismo, cioè di quello che le enciclopedie definiscono come «orientamento politico e sociologico volto a promuovere il riconoscimento e il rispetto dell’identità linguistica, religiosa e culturale delle diverse componenti etniche presenti nelle complesse società odierne» (Treccani). Mi trovo però d’accordo con l’intellettuale franco-canadese Bock Côté che sul «Figaro» ha definito «furiose purificazioni che eccitano la folla» le recenti manifestazioni americane e le analoghe ondate che si riscontrano in altri paesi anglosassoni, aggiungendo che «ci troviamo di fronte ad uno scoppio particolarmente violento di febbre, che testimonia il potere del riflesso penitenziale nella cultura politica occidentale contemporanea. (…) Si invitano i giovani (…) a credere di essere eredi di una storia odiosa che devono ripudiare con ostentazione (…) La storia dei popoli non può essere riscritta facendo un uso arrabbiato dell’ascia».
Queste parole hanno un duplice pregio: riescono ad andare oltre i clamori della moderna gigliottina mediatica e invitano a riflettere su questo fenomeno. Innanzitutto invitano a chiedersi se tra le sempre più variegate pieghe del multiculturalismo non si nasconda anche qualche strategia per imporre una moderna forma di egualitarismo culturale. Inoltre, esse ricordano i rischi che il multiculturalismo comporta per una società sempre più minacciata dal vuoto culturale e storico con cui le nuove generazioni iniziano a fare i conti. Il sociologo americano Richard Sennett, insignito dell’ultimo Premio Veillon per il libro Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione (Feltrinelli), in cui anticipava gli effetti negativi del «nuovo modo di fare politica» dell’Occidente, quarant’anni fa ha scritto questa sentenza: «Nessuno può costruirsi un futuro solido odiando il proprio passato». L’attualità del giudizio di Sennett mi ha suggerito di accostare la fotografia del «Colombo decapitato» di New York non più al busto di George Washington a Lugano, ma a un’altra famosa fotografia, scattata nel 2001, che ritrae quel che resta dei monumentali Buddha di Bamyan, statue scolpite nella pietra a 230 km da Kabul. Distruggendo quelle rappresentazioni di «simboli pagani» i talebani dicevano di voler costruire un futuro migliore in Afghanistan; oggi i seguaci del multiculturalismo li imitano cancellando «simboli di schiavitù e colonialismi» per una futura «unione sociale di unioni sociali» in Occidente.