I repubblicani e il loro presidente

/ 11.11.2019
di Paola Peduzzi

L’esito finale della inchiesta per l’impeachment di Donald Trump dipende dai senatori repubblicani. Sono loro che, quando arriverà il momento del voto, decideranno il destino del presidente: al Senato ci vogliono due terzi dei voti per confermare l’impeachment e questo significa che una ventina o più di repubblicani dovrebbe passare con i democratici e gli indipendenti e votare contro Trump. Impossibile? Non proprio, ma le chance sono basse, per una serie di motivazioni che, semplificando, è una sola: l’appartenenza. Per quanto Trump sia il presidente più atipico e meno ortodosso che i repubblicani potessero scegliersi, per quanto in questi tre anni i repubblicani abbiano dovuto ingoiare molti atti sprezzanti di Trump, è pur sempre il «loro» presidente: in ogni caso sempre meglio rispetto a un democratico alla Casa Bianca.

È il motivo per cui il Partito repubblicano rimane allineato a Trump, anche quando viola i valori e le ispirazioni cari ai conservatori. È accaduto con la questione siriana: il ritiro frettoloso (che non è nemmeno un ritiro: i soldati americani sono tornati a guardia dei pozzi di petrolio) in Siria con il conseguente abbandono dei curdi, alleati dell’America, ha sconvolto molti repubblicani. Si sono visti, in quell’occasione, molti tentennamenti e ripensamenti da parte anche di repubblicani considerati trumpianissimi, con tanto di dichiarazioni di condanna pubbliche, al punto che alcuni commentatori avevano iniziato a contemplare l’ipotesi che potesse ripetersi con Trump quel che era accaduto con Nixon, il quale si era dimesso prima dell’impeachment quando si era accorto che il suo partito non era più con lui. 

Poi è arrivato il blitz che ha ucciso il leader dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, e tanto è bastato per calmare i probabili riottosi: in fondo questo presidente repubblicano (con l’aiuto di un cane) ha eliminato il terrorista più ricercato del mondo.

I repubblicani sono costretti a mostrare un doppio volto: in pubblico chiedono massima trasparenza e massimo rigore nei confronti di Trump, in particolare per quel che riguarda la richiesta di impeachment. Vogliamo avere a disposizione tutti i fatti, proprio come i democratici, dicono: devono convincere gli elettori anche loro, in fondo. Ma negli scorsi giorni i deputati democratici hanno iniziato a rendere pubbliche le trascrizioni delle prime testimonianze avvenute a porte chiuse e alla luce di questi testi il ruolo dei repubblicani appare molto diverso rispetto a quello ostentato in pubblico. Nelle loro domande ai testimoni hanno chiesto informazioni su Joe Biden, l’ex vicepresidente candidato alle primarie democratiche, e anche su Hillary Clinton, ex candidata alle presidenziali battuta da Trump: a parte i favori richiesti da Trump, il materiale compromettente su di loro c’è? E nel caso, cosa dice? Le risposte non sono state soddisfacenti.

Allora i repubblicani hanno cercato di verificare se a muovere i testimoni fosse un banalissimo pregiudizio antitrumpiano: è noto che il presidente non abbia un buon rapporto con il suo corpo diplomatico e che preferisca relazioni basate su canali informali e personali. È allora possibile che i diplomatici, che sono i testimoni più ascoltati visto che si tratta di un’inchiesta che riguarda i rapporti con un paese straniero (l’Ucraina), si stiano semplicemente vendicando di un presidente che non li tiene abbastanza in considerazione? Anche in questo caso le risposte non sono state soddisfacenti. 

La terza linea d’indagine dei repubblicani riguarda la ricostruzione dei fatti: alcuni testimoni non erano presenti alla famosa telefonata tra Trump e il presidente ucraino, perché ne parlano come se lo fossero? Anche in questo caso le risposte non sono state soddisfacenti. I repubblicani hanno cercato di intervenire il più possibile negli incontri a porte chiuse – una volta anche battendo alla porta con i cellulari gridando: fateci entrare! – per dimostrare la tesi di Trump: è una caccia alle streghe. E infatti da ultimo circola una nuova linea difensiva, che pare quella definitiva (cosa ci può essere dopo?): il presidente ha sì condizionato gli aiuti militari all’Ucraina alla presentazione da parte di Kiev di materiale compromettente su Biden, ma questo non è un reato da impeachment. Così fan tutti, insomma, le relazioni diplomatiche sono complicate: se questa è la strategia, vuol dire che l’appartenenza ha già vinto.