I paradossi della memoria

/ 30.04.2018
di Paolo Di Stefano

Un amico mi ha girato una frase che mi accompagna da diversi giorni. È una bellissima frase del filosofo tedesco Ernst Bloch che butto là, a futura memoria: «Solo quel ricordare è fertile che nello stesso tempo ricorda quello che c’è ancora da fare». Il nuovo libro del poeta Valerio Magrelli, La parola braccata (Il Mulino), affronta, nella prima parte, la questione della dimenticanza e del suo contrario: l’eccesso di memoria. Lo fa partendo da un famoso caso studiato dal neuropsicologo sovietico Aleksander R. Lurija (5½ alla visionarietà scientifica). È il caso di S., che sviluppando le proprie capacità visive e acustiche non dimenticava nulla. Con gravi conseguenze: il suono di ciascuna parola gli evocava una tale quantità di ricordi, di storie e di immagini visive da non permettergli più di leggere. E i ricordi erano così esatti che una minima variazione finiva per confonderlo: per esempio, il suo cervello non ammetteva l’esistenza di sinonimi che potessero indicare la stessa cosa.

Il culmine del paradosso avvenne quando S. (media tra 6 e 2 alla memoria) si trovò a cena al ristorante e scorrendo il menu gli bastò un errore di stampa per impedirgli di mangiare, perché il cambiamento di una sola lettera comprometteva per lui anche il sapore del cibo evocato da quel termine. L’ipertrofia della memoria equivale insomma all’impossibilità di vivere una vita normale.Nel 1944, circa vent’anni prima di Lurija, uno scrittore, Jorge Luis Borges (6– alla visionarietà letteraria), inventò un personaggio, Funes, dalla memoria prodigiosa. Il quale non riusciva a comprendere come fosse possibile chiamare con lo stesso nome il cane che alle 15.14 gli appariva di profilo e alle 15.15 gli appariva di fronte. Al centro di un breve scritto di Franz Kafka (6 alla contorsione fantastica) c’è un uomo che, pur essendo capace di nuotare, non si azzarda a farlo perché non riesce a dimenticare la propria antica incapacità di nuotare.

Lo stesso dottor Lurija, chiuso lo studio sul «mnemonista» S., si dedicò al suo opposto: l’amnesia di Z., un soldato che nel 1943 fu colpito al cranio da una pallottola. Aveva perduto del tutto la facoltà di leggere, e di fronte alle frasi provava un immenso senso di smarrimento perché le lettere gli sfuggivano dappertutto lasciando un pulviscolo luminoso. Incredibilmente, nonostante l’afasia mentale di cui finì prigioniero Z., avrebbe a suo modo recuperato la scrittura utilizzando quelle che Laurija chiamò le «melodie cinetiche», cioè la fluidità dei movimenti appresi con l’abitudine prima dell’incidente. Ne venne fuori, in venticinque anni, un diario di ben tremila pagine scritte con grande sofferenza e destinate a rimanere inaccessibili allo stesso autore, che ovviamente non riusciva a leggerle.

«Il vantaggio della cattiva memoria – scrisse Nietzsche – è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta». È una prospettiva ottimistica. Lo sa anche Magrelli (5½ al suo libro, che si sofferma soprattutto sulla eterna questione della traduzione letteraria). La scrittrice George Eliot racconta di un tizio che avendo recuperato un nome che era caduto nel vuoto, lo annota sul taccuino per non scordarsene più, ma purtroppo finisce per perdere il taccuino. Lo sforzo necessario per uscire dall’oblio è a volte immane quanto inutile, anche quando si tratta di dimenticanze non dovute a traumi ma causate da forme di rimozione psicopatologica tipiche della vita quotidiana di chiunque. Quegli smarrimenti che rendono ricorrente l’espressione «sulla punta della lingua».

Sull’argomento, ma non solo, consiglio di leggere un libro sorprendente appena uscito da Adelphi (5+: storia stupenda da 6 ma scrittura un po’ piatta da 4+). È Il professore e il pazzo del giornalista Simon Winchester. In breve: nell’epopea della redazione dell’Oxford English Dictionary si nasconde la vicenda incredibile del dottor W.C. Minor, uno dei maggiori collaboratori (a distanza) della titanica impresa editoriale cui vennero chiamati a contribuire tutti i letterati su base volontaria. A quell’oscuro personaggio si devono tantissimi lemmi spesso ricostruiti a memoria e inviati regolarmente in busta chiusa al direttore editoriale James Murray. Quando questi, il Professore, si muoverà per andare a ringraziare della generosità il misterioso collaboratore, scoprirà trattarsi di W.C. Minor, ricco e coltissimo gentiluomo americano ricoverato in un manicomio criminale per aver sparato la notte del 17 febbraio 1872, per un raptus paranoide, a un operaio che si stava recando al lavoro. Soffriva di sindrome persecutoria non curabile, ma per tutta la vita ebbe l’instancabile voglia di studiare e di leggere al punto da pretendere di avere la sua biblioteca nella stanza del manicomio. A 85 anni, nel 1920, assediato dalla demenza senile, finì i suoi giorni avendo dimenticato tutto (forse anche l’assassinio di cui fu colpevole) e dimenticato da tutti tranne che da un nipote di cui non ricordo il nome. E non posso recuperarlo, perché ho perso il libro…