È stato uno shock per tutti: per i democratici, ma anche per i repubblicani. E non solo perché Trump ha sconfitto in un colpo solo entrambi i partiti, quello dei Clinton e il suo.
Trump non si aspettava di vincere. Né se lo aspettavano i suoi; esattamente come i democratici non si aspettavano di perdere. Questo spiega come entrambe le due Americhe siano sotto shock.
Mi sono ritrovato quasi per caso nel corteo anti-Trump che ha attraversato New York. La cosa più impressionante è l’età. Il più vecchio avrà trent’anni. La media è attorno ai venti: una cosa impensabile nelle manifestazioni italiane. Non un simbolo di partito, di un sindacato, di un’associazione. Nessuno striscione, solo cartelli scritti a mano.
Migliaia di ragazzi hanno invaso le strade di Manhattan mercoledì sera alle 7. Una manifestazione spontanea, autorganizzata. Si sono dati appuntamento a Union Square, hanno imboccato la Fifth Avenue, hanno girato a sinistra sulla trentesima, poi hanno imboccato la Sesta sino a Central Park, sotto la Trump Tower, la casa del nuovo presidente, tra il traffico impazzito, i poliziotti incerti sul da farsi che li seguivano correndo, i passanti che solidarizzavano o si univano a loro. Una banda musicale di ottoni. Bandiere del movimento Lgbt, lesbiche gay bisex transgender. La maggioranza erano ragazzi della New York University, della Columbia, delle scuole superiori, di ogni etnia e religione. Cortei simili, anche se meno imponenti, si sono visti a Chicago e nelle città californiane. Ovviamente non cambiano di una virgola il messaggio che gli elettori hanno dato. Ma segnano la presenza di un’America giovane, che si colloca subito all’opposizione. Non legata al partito democratico: nessuno nomina Hillary, cui sembrano del tutto estranei. Divisa da slogan a volte contraddittori. Ma unita da un unico obiettivo polemico: Trump. Con qualche insulto pure per Rudolph Giuliani. E considerazioni decisamente critiche sugli elettori della Florida e di altri Stati che hanno votato per The Donald.
Eppure le prime parole del nuovo presidente sono state concilianti. «Together», insieme, è stata la parola chiave del discorso, accanto a «work», lavoro, e a «dream», sogno. «Finora ho lavorato per me, ora lavorerò per il mio Paese. E metterò al lavoro milioni di persone». «Dobbiamo rinnovare il sogno americano. Sognare in grande. Nessun sogno è troppo grande, nessuna sfida».
Il sogno americano francamente non era al Victory Party convocato all’Hilton. Bastava scorrere l’elenco degli invitati, sia al banco dei vip sia a quello dei sostenitori: quasi tutti indirizzi di Manhattan, molti di Park Avenue e dell’Upper East Side. È un’America abituata a comandare, animata dallo spirito di rivincita più che di conquista. Ma è un’America che torna egemone dopo gli anni di Obama. Gli uomini sono in netta maggioranza, non è vero che le donne non si siano mobilitate per Hillary, anche la Fox riconosce che il 54% contro il 42 ha votato per lei; ma tra le donne qui convenute Hillary è odiatissima.
Trump ha ringraziato i parenti uno a uno. Ha evocato il padre Fred, il carpentiere diventato costruttore, e la madre scozzese Mary Anne da cui ha preso gli occhi azzurri, «che stasera hanno guardato giù, verso di me». Le sorelle Maryanne ed Elizabeth, il fratello Robert. Ha citato il fratello alcolista che non c’è più, Fred jr, omettendo di aver fatto escludere i suoi figli dall’eredità paterna. La terza moglie Melania in peplo bianco a scoprire la spalla destra. Ivanka, la figlia prediletta, la più applaudita. Tiffany, che si chiama come la gioielleria sotto casa. Eric, cui ha passato gli occhi azzurri, e Don, che porta il suo nome. E poi i servizi segreti, «che l’altro giorno mi hanno trascinato via dal palco: era un falso allarme, hanno fatto le prove». I duecento generali che l’hanno sostenuto. E i newyorkesi: «Spesso sono sottostimati, ma io li stimo moltissimo».
Dichiarazioni consuete, tipo «sarò il presidente di tutti gli americani», diventano notizie in bocca al candidato politicamente più scorretto della storia. Nello stesso momento, Lady Gaga andava a gridare la sua rabbia sotto la Trump Tower, anticipando il corteo dei ragazzini. Un gesto di esibizionismo, forse. Ma anche il segno che coloro che detestano Trump continueranno a farlo. Per l’America, e di conseguenza per il mondo, comincia un periodo di grandi incognite. Interessanti da raccontare, ma anche gravide di possibili conseguenze negative.