Andate a visitare una mostra d’arte, quelle di una volta, con i quadri appesi alle pareti e portate con voi, appeso alla schiena, uno zaino con un bambino dentro. Tornati a casa, fategli trovare dei fogli e delle matite colorate. Nasceranno dei lavori fantastici. Attenzione: non tutti i grandi maestri funzionano. Chagall e Mondrian vanno bene, Fontana no, stimola il bambino a praticare tagli nella tappezzeria. Anche Burri può essere pericoloso, non è mai bello dar fuoco alla plastica. Mi ha fatto lo stesso effetto la contemplazione di un’opera, da molti giudicata la migliore fra le molte migliaia esposte in quattro grandi spazi, in una Torino capitale mondiale dell’arte con Artissima, Flashback, Paratissima, Flat.
Stregato dal suo fascino, per prolungarne ancora l’effetto, arrivato a casa, non ho cercato tele e colori ma sono corso in cortile nella speranza che non avessero ancora svuotato il contenitore giallo della carta. Sono stato fortunato, c’erano i diari, le agende, i quaderni che la mattina, in preda a un raro attacco di riordino, avevo buttato, senza sapere che mi stavo liberando di materiali preziosi. Mi spiego. Ho voluto visitare, nella «Nuvola Lavazza», la mostra intitolata Flat perché pensavo al verbo della frase latina «Spiritus flat ubi vult», cioè «Lo spirito soffia dove vuole», un’affermazione per molti di noi consolante. Si tratta invece di un acronimo, per «Fiera Libri d’Arte Torino».
In questo edificio avveniristico inaugurato di recente, l’intero terzo piano era occupato dal lavoro di Dieter Roth, un artista che, per mia colpa, non avevo mai sentito nominare. Erano esposte 161 opere: 73 libri confezionati con le sue mani, 43 fra agende e quaderni più manufatti vari. Nato nel 1930 in Germania, ad Hannover, da madre tedesca e padre svizzero, è morto a Basilea nel 1998, dopo essere vissuto per qualche anno a Reykjavik per aver sposato nel 1957 una islandese. Dalla metà degli anni ’50 fino alla morte, il nostro amico non ha mai smesso un istante di scrivere, costruire libri e disegnare e per fare prima sovente impugnava le matite con due mani come documentato dalle fotografie e forse riusciva a tenerne una terza in mezzo ai denti. Dieter ha annotato i suoi pensieri, gli incontri con gli amici e tutto quello che gli capitava, giorno per giorno, in vari formati. Fabbricava a mano libri, compresa una serie di storie per bambini. Inventava una nuova corrente critica, battezzandola «Literaturwurst»; per fare un esempio, ha tradotto la Metafisica di Hegel in venti grandi salsicce, macinandone le pagine fino a farle diventare minutissimi brandelli per poi insaccarle in budelli. Adesso tutti quei materiali, compresa una salsiccia, sono esposti dentro bacheche di vetro e fanno pensare alle reliquie di un santo. Martire no, caso mai erano martiri i suoi famigliari, guai se buttavano via anche un semplice appunto, fosse anche stata la lista della spesa. Eravamo in tanti, in quel grande spazio in penombra, chini in religioso raccoglimento sopra quelle bacheche illuminate, in silenzio ma con la voglia di recitare non dico una preghiera ma qualche versetto di un salmo. Esiste naturalmente una «Fondazione Dieter Roth», si trova ad Amburgo e annovera fra i collaboratori il figlio Björn, a sua volta artista.
Ci sarà qualcuno che ha letto e schedato tutte quelle migliaia di pagine? Se nel trasporto da un’esposizione all’altra, si rompe una salsiccia, come faranno a restaurarla? Possono macinare una copia qualunque della Fenomenologia del povero Hegel o devono procacciarsi sul mercato antiquario la medesima edizione usata da Dieter? Nella sua biografia non è annotato quale voto avesse in filosofia, ma scommetterei che non fosse molto lusinghiero. Se Dieter fosse ancora vivo, conserverebbe anche le mail e i twitter? Tornato a casa, carico di entusiasmo, mi sono chiesto: perché lui sì e io no? Dopo aver recuperato quaderni di appunti e vecchie agende ho provato a immaginare il tutto dentro bacheche trasparenti.
Le mie sono piene di annotazioni materiali, per metà si parla di cibo, con l’indicazione di dove si trova la migliore porchetta di Torino. O la farinata. Dieter, almeno nelle pagine leggibili, non ne parla mai, sembra che viva d’aria. Sulle mie annoto il peso, (adesso sono a 97,1 ma sono arrivato a pesare 109,6). Dieter com’era? Grasso? Magro? Si vaccinava contro l’influenza? Prendeva delle multe per eccesso di velocità? Annotava il giorno in cui doveva fare il cambio delle gomme alla sua auto? Lo ammetto, il modello è inimitabile. Dieter sapeva fin da piccolo di essere un artista e perciò non buttava via niente. O utilizzava delle agende parallele che poi distruggeva, dove segnare gli appuntamenti e gli impegni, oppure aveva vicino qualcuno che lo sollevava da tutte le incombenze pratiche. Io sono stato allevato nel contesto dei valori del vecchio Piemonte; mio padre, quando disapprovava il modo di fare e lo stile di vita di qualcuno, diceva con un tono di voce sprezzante: «quello lì è un artista».