Con regolare frequenza, e ormai da anni, notizie, articoli o saggi ci aggiornano sulla crisi che attanaglia l’editoria, in particolare la carta stampata. Il giornale sta morendo, il digitale è in crisi, meglio la carta del display ecc. ecc. La più recente di queste notizie riguarda l’impegno, collegato a sforzi per individuare soluzioni alla crisi, messo in mostra dalla Business School dell’università di Harvard. Ne ha riferito il direttore de «la Stampa» di Torino, Maurizio Molinari, rispondendo a un lettore che lo interrogava su come l’industria dei giornali stia fronteggiando l’attuale fase di trasformazione del mercato mediatico.
Dell’università bostoniana Molinari ha citato le ricerche focalizzate sulle scelte adottate dall’editore scandinavo Schibsted. Stampatore del maggiore quotidiano norvegese, ma attivo anche in iniziative editoriali diffuse in più continenti (un po’ come da noi fa l’editore Ringier, costretto a chiudere una tipografia lucernese licenziando oltre 150 dipendenti), Schibsted ha avviato una ristrutturazione del suo gruppo seguendo tre principali vie. La prima riguarda la pubblicità, vale a dire quella che, in tutto il mondo, continua ad essere la principale fonte di entrate per gli editori di giornali. Schibsted – ma questa non è una grande novità – ha deciso di coordinare la raccolta con altri cinque quotidiani norvegesi non concorrenti, mirando così a moltiplicare il pubblico e allargare il mercato, traendone, sia pure a lunga scadenza, miglioramenti economici. Più innovativo il secondo intervento che riguarda più direttamente il giornalismo, visto che tocca la sequenza nella divulgazione dei contenuti. In questo cambiamento il prodotto editoriale, che prima veniva elaborato senza particolari distinzioni riguardo alla qualità, ora viene confezionato seguendo il principio dei «tre strati». Inizialmente per il flusso di notizie viene approntato un racconto istantaneo dei fatti in corso, anche solo con singole frasi, puntando a far partecipare i lettori ad eventi in diretta. Segue, naturalmente se notizia o tema lo consentono o lo suggeriscono, un racconto: prima basato sull’analisi dei fatti in corso; poi si progetta un prodotto finale, dedotto dai fatti, ma supportato con analisi e approfondimenti che andranno al giornale in carta.
Il direttore della «Stampa» non lo dice, ma v’è da credere che nelle varie fasi si inseriscano, e dettino regole, anche le tre finalità editoriali: nella prima l’attenzione giornalistica prioritaria sarà l’edizione elettronica, cioè i vari siti o servizi online dell’editore; nella seconda subentra un primo approfondimento che consente di trattare l’argomento con scelte operative e valutazioni riguardanti la qualità e l’importanza della notizia, utili anche per l’individuazione dei potenziali indirizzi nelle fasi successive. Infine, terza fase, si approda al giornalismo di qualità (approfondimenti, inchieste, interviste ecc.) e riguarderà principalmente la carta stampata. Alle due fasi prettamente tecniche o editoriali, l’editore norvegese ha aggiunto anche una terza linea che completa il suo programma editoriale: il coinvolgimento dei lettori. Lo realizza con apposite app che consentono interazioni nelle due precedenti fasi e favoriscono lo scambio di opinioni e esperienze in tempo reale, sino a formare una sorta di giudizio esterno utilissimo non solo per il lavoro dei giornalisti, ma anche per la ricerca pubblicitaria e le parallele attività del marketing.
Dimentichiamo Harvard e Schibsted e torniamo alle difficoltà della carta stampata. Nella sua breve risposta Tiziano Molinari conferma che «l’industria dell’informazione sta attraversando una fase di rinnovamento destinata a rafforzarla come vettore di contenuti, qualità e interazione». Queste parole suggeriscono un duplice interrogativo: visto che a spingere il mondo è sempre più il digitale (dai tweet di Trump agli impulsi che muovono sonde perse nello spazio), come mai la carta stampata resiste o perlomeno continua ad avere un futuro? E come mai le «fasi di rinnovamento», pur durando più a lungo di altre crisi, si succedono senza che nessuno trovi risposte o soluzioni? Seguendo un po’ quel che capita nell’editoria mondiale la tesi più sensata da seguire resta ancora quella di Jonathan Franzen che collegava la crisi della carta stampata a quello che lui considera il più grande blogger «ante litteram», Karl Kraus: avendo intuito che il giornalismo moderno si diffondeva, ma perdeva le caratteristiche buone del giornalismo senza guadagnare quelle migliori della letteratura, «Kraus scelse di schierarsi col funzionalismo tedesco, piuttosto che con l’estetismo francese. Secondo lui una macchina doveva essere funzionale, non bella». Oggi, giocando la carta della funzionalità ineguagliabile della carta stampata, per cercare di sopravvivere editori e giornalisti devono impegnarsi a smuovere un pubblico sempre più connesso, rendendolo consapevole che al posto della solita robaccia effimera, offerta gratuitamente e che crea dipendenza (quando non induce in errore), può avere anche roba funzionale sulla carta stampata, meno bella, ma più sicura. Pensate: perché la radiotelevisione ha dovuto far capo alla carta stampata per allentare la morsa della No Billag?