Nelle aree occidentali gli allarmi per le sorti del sistema democratico si stanno infittendo. Anche le indagini politologiche sul tema sono sempre più nutrite, tanto da occupare interi scaffali. Sono tutte espressioni venate di forte preoccupazione, sintomo di qualcosa che sta andando storto, e comunque non nel senso auspicato da un Montesquieu o da un Tocqueville. Si teme la sindrome-Weimar, ossia la possibilità che l’assetto repubblicano non trovi più difensori e gradualmente scivoli nel caos e, alla fine, nella dittatura.
Cos’è successo? È successo che la peggior forma di governo (eccezion fatta per tutte le altre che l’hanno preceduta, secondo la celebre definizione di Winston Churchill) vede sgretolarsi lo zoccolo sul quale, nel corso dei secoli, la politica illuminata aveva costruito l’impalcatura dello Stato moderno imperniata sulla divisione dei poteri, il primato della legge, i meccanismi di controllo; in una parola, su una serie di norme fissate nelle Costituzioni repubblicane.
I testi classici sono soliti collocare la democrazia nell’alveo delle regole del gioco (v. per tutti Il futuro della democrazia di Norberto Bobbio, più volte riedito). La democrazia è l’ordinamento che prevede pesi e contrappesi al fine di evitare derive monocratiche, e che non contempla deleghe in bianco a favore di un’unica istanza (di un’unica persona). Rinunciare a questi presupposti, che le sono connaturati assieme ad un articolato corredo di diritti (politici, civili, sociali), vuol dire aprire la strada all’arbitrio, ad un regime autoritario magari spacciato sotto la seducente etichetta maoista di «servire il popolo».
È tranquillizzante pensare che i sistemi democratici edificati e perfezionati sulle macerie della seconda guerra mondiale siano protetti da una spessa corazza di acciaio, in grado di resistere agli assalti della malapolitica. Purtroppo non è così. L’offensiva nazionalpopulista, spesso mascherata da democrazia diretta, li sta minando alla radice. Solo la «volontà generale» elevata a valore sacrale conta, il resto va eliminato; tutto quanto ostacola il dialogo tra il popolo sovrano e l’uomo-guida prescelto dalle piattaforme informatiche dev’essere soppresso.
Tale svuotamento, tuttavia, non avviene soltanto per opera dei poteri forti, delle oligarchie e dei potentati economici. Questi processi sono dannosi ma noti e studiati, patologie che le democrazie mature hanno saputo in qualche modo arginare e ricondurre sotto il livello di guardia. No, l’erosione in corso è più subdola perché viaggia sull’onda dei nuovi mezzi di comunicazione e di una cultura visuale continuamente alimentata da uno stuolo di comunicatori, suggeritori, consulenti d’immagine, pubblicitari, videomaker. Ogni uomo-guida dispone di una squadra appositamente addestrata alla bisogna. La figura dell’intellettuale «disorganico» non è più richiesta, è d’impiccio e comunque non porta voti; anzi, finisce per incrementare l’astensionismo. La nuova era della propaganda politica è ora nelle mani dei cyber-imbonitori e degli esperti di messinscena. Il leader moderno mal sopporta le lungaggini della politica «old style».
Oggi la parola magica è «disintermediazione». Con questo termine s’intende la cancellazione di tutti i passaggi che s’interpongono tra la base e il capo. Tra questi due poli deve correre un filo diretto, non più mediato dai partiti e dalle loro liturgie: assemblee o congressi, dibattiti, elezioni interne.
I nemici della democrazia sono sempre stati numerosi, ma ora l’insidia principale si presenta sotto sembianze amichevoli; non ha un volto truce, non indossa divise, non sventola bandiere con simboli minacciosi. Promette di abolire le deleghe, i parlamenti e le soluzioni di compromesso, tutti canali considerati irrispettosi dell’autentica volontà popolare. Glorifica la tecno-democrazia digitale, sottacendone i risvolti negativi, i rischi e le fragilità in fatto di sicurezza e segretezza del voto. Ma proprio l’esperienza elvetica insegna che democrazia diretta e democrazia rappresentativa sono due piatti diversi della stessa bilancia, che l’una non può funzionare correttamente senza l’altra, che esaltare la prima e demonizzare la seconda genera effetti distorsivi antidemocratici, tra cui la «dittatura della maggioranza» denunciata da Alexis de Tocqueville nel suo trattato Della democrazia in America (1835).