I 100 anni di Caporetto

/ 30.10.2017
di Aldo Cazzullo

I cent’anni della rotta di Caporetto hanno acceso molta emozione in Italia. Gli italiani non hanno il senso dello Stato, ma sono più legati alla patria di quanto pensano di essere; soprattutto se la storia nazionale incrocia quella delle loro famiglie. La Seconda guerra mondiale, e la guerra civile che ne seguì, divide; la Grande Guerra unisce.

Sono stato sui luoghi della grande battaglia combattuta tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 1917, e mi sono reso conto che i fatti sono ancora avvolti nel mistero. Ad esempio, non si è mai capito bene perché i 400 cannoni di Badoglio abbiano taciuto, nell’alba nebbiosa del 24 ottobre. Ora dalla cima del Kolovrat ci si butta con il parapendio. Vista dall’alto, la vallata dove passarono i tedeschi sembra un bersaglio facile. Si è pensato che Badoglio volesse lasciar entrare il nemico nella trappola per colpirlo con comodo. In realtà, i tedeschi intercettavano le sue comunicazioni radio: ovunque il generale si spostasse, veniva individuato e bersagliato; distrutte le linee telefoniche, sovrastate dal fragore le «trombette bitonali», abbattuti pure i piccioni viaggiatori. La nebbia fece il resto. L’ordine di aprire il fuoco non arrivò mai.

Eppure si sapeva tutto. Fin da sabato 20 ottobre, quando un disertore boemo, il tenente Maxim, si è consegnato con notizie dettagliate sull’attacco imminente. L’Isonzo restituisce un cadavere con la divisa dei tedeschi: ci sono anche loro. Lunedì 22 ottobre arriva il re, che viene avvisato: la situazione è drammatica. Vengono fatti saltare i ponti sul fiume. L’editoriale del «Corriere della Sera» annuncia un’offensiva nemica alle porte.

Martedì 23 ottobre Cadorna tiene consiglio di guerra, sotto un ippocastano. I suoi generali sono quasi tutti piemontesi come lui: Capello, Badoglio, Bongiovanni, Cavaciocchi, Cavallero (che è ancora colonnello). Si parla dialetto; Caviglia, che è ligure di Finale, si arrangi. Cadorna è disperato: «Mio padre prese Roma, a me tocca perderla!». Badoglio si è appena sfogato con l’attendente: «Ce la siamo data a intendere gli uni con gli altri, e adesso è finita! Non c’è più nulla, neanche lo stellone!». Ma ora di fronte al comandante in capo che lo incalza – «e chiel? L’on ca fa chiel?», lei cosa fa? – ostenta tranquillità: «Mi? A mi ’n manca gnente. Mi manca solo un campo di prigionia per i nemici che cadranno nelle nostre mani». Cadorna gli mette una mano sulla spalla.

Pochi giorni dopo, nelle mani nemiche cadranno 300 mila prigionieri italiani. Altrettanti, forse più, gli sbandati. Uno dei misteri di Caporetto è che Badoglio, anziché essere rimosso come Cadorna e Capello, sarà promosso sottocapo di Stato maggiore dell’esercito.

Il bombardamento comincia alle 2 del mattino di martedì 24 ottobre. La terra trema. Tempeste di ferro e nubi di fuoco si abbattono sulle prime linee. Ma presto la battaglia si fa silenziosa. Gli italiani presidiano le cime; tedeschi e austriaci passano nel fondovalle. Piccoli gruppi, armati di mitragliatrici leggere e mortai da assalto, fanno prigionieri interi reggimenti: si distingue un tenente di 26 anni, Erwin Rommel. Troppi soldati italiani in prima linea, spesso tagliati fuori dal combattimento; troppi pochi nella seconda linea, travolta in poche ore.

A Nord, nella conca di Plezzo, il silenzio è assoluto. Nell’aria odore di mandorle amare. Per sapere se i tedeschi hanno usato il gas, il comando di divisione manda in prima linea un graduato, che informa: «I soldati sono tutti al loro posto, col fucile fra le mani e la maschera al volto». Annota l’aspirante ufficiale Giovanni Comisso: «Quei soldati erano impietriti dalla morte, che la piccola e miserabile maschera non aveva servito a impedire». Almeno 800 asfissiati. Il comandante tedesco, conte Otto von Below, annota compiaciuto: «L’effetto del gas è devastante». Ora la conca di Plezzo ospita un campo da golf.

Come l’esercito italiano sia rinato sul Piave e sul Grappa, pochi giorni dopo, è un altro mistero. Il nemico non si aspettava di avanzare tanto; ma non si attendeva neppure un riscatto così improvviso. Non c’è più da andare all’assalto di montagne che nessuno ha mai sentito nominare, da prendere città in cui nessuno è mai stato; c’è da difendere la famiglia, badare alla terra; cose che i fanti contadini conoscono bene. È un mistero anche come Badoglio – ribattezzato ironicamente «marchese di Caporetto» – si riveli l’organizzatore della resistenza. È la vera nascita dell’Italia: una babele di dialetti, un popolo giovane diventano nelle trincee una nazione.

Resta il fatto, come ha scritto trent’anni fa Mario Silvestri, che «la vera Italia non è quella del Piave, ma quella di Caporetto. Caporetto viene da lontano e va lontano. L’Italia del Piave non è la regola ma l’eccezione». Quello che avvenne cent’anni fa «era già avvenuto prima, avvenne dopo, avviene sotto i nostri occhi; e ci sono tutte le premesse perché avvenga in futuro». Un monito sinistro; quasi una profezia.