Hillary Clinton ha deciso di «abbassare la guardia», mossa inaudita per lei, che si è sempre sentita come se stesse camminando «su un filo senza rete» e ha impostato la sua carriera politica sul suo mostrarsi sempre sentinella in pattuglia. Ma quel che è accaduto nel 2016, la sconfitta «devastante» inflitta da Donald Trump, sulla carta il meno impegnativo degli sfidanti presidenziali possibile, ha convinto la Clinton a togliersi l’elmetto e a raccontare, a raccontarsi. Con questo spirito nasce il suo prossimo libro, What happened, che sarà pubblicato negli Stati Uniti il 12 settembre e che con tutta probabilità manterrà aperta una ferita che ancora non si è rimarginata, per la Clinton certamente, ma anche per mezza America e mezzo mondo: come ha fatto Hillary a perdere la corsa elettorale per la Casa Bianca contro Trump? Dalla comprensione di quel che è accaduto dipende anche la ristrutturazione in corso del Partito democratico, alle prese con una opposizione all’Amministrazione Trump che, ancora una volta, sembra semplice – il presidente americano produce elementi di controversia a un ritmo impressionante – ma in realtà non lo è. Perché essere semplicemente «anti Trump» non è una strategia politica efficace.
Secondo quanto fatto sapere dall’editore, Simon & Schuster, la Clinton vuole spiegare com’è la vita di una «donna forte» candidata alla presidenza, la prima della storia americana, cosa significa doversi giustificare per il proprio taglio di capelli, la tonalità della risata o i tradimenti del marito, che è un po’ quello che Hillary fa da tutta la vita. Il suo libro più di successo, Living History, pubblicato da ex first lady, affrontava proprio questo tema della donna e moglie alle prese con «un doppio standard» applicato alle signore: con la campagna elettorale del 2016 la questione si è inevitabilmente amplificata, perché in ballo c’era la presidenza degli Stati Uniti e perché a vent’anni dall’elezione del marito Bill il clintonismo si portava addosso tutti i fardelli ideologici del Paese. Quel che è successo, quindi, è che una donna presidente non piaceva poi così tanto agli americani, e poi si sono aggiunti fattori esterni, l’Fbi e la sua inchiesta aperta e chiusa a uso e consumo degli anticlintoniani e soprattutto la Russia, il cui ruolo è ancora oggetto di un’inchiesta che sta paralizzando una già caotica Amministrazione Trump.
La Clinton cerca di rimettere ordine in una sconfitta clamorosa: dopo essere scomparsa per un po’ dalla scena ha rilasciato interviste e tenuto discorsi in cui voleva dimostrare di essersi ripresa dallo shock e dal dolore e stabilire le cause esterne che avevano determinato la vittoria di Trump. «Io sto bene, e voi?» è il titolo di una copertina del magazine «New York» di qualche mese fa, il primo della restaurazione clintoniana: il tono divertito in realtà ha colto nel segno. Perché forse Hillary sta davvero bene, ma noi – loro, i democratici sconfitti, gli antitrumpiani – non tanto. La Clinton e il suo partito non soltanto hanno sbagliato strategia, ma hanno anche perso un elettorato che, soltanto otto anni fa, aveva votato Barack Obama. La celebre Rust Belt, la pancia dell’America, ha preferito Trump a Hillary anche perché il messaggio «speranza e cambiamento» di Obama si è rivelato fallace. Ed è da questa consapevolezza che i democratici vogliono ripartire, per costruire una proposta politica in vista delle mid-term del novembre del prossimo anno. Più che chiudere la ferita di Hillary, si tratta di capire come sarà la sinistra americana, che come molte altre sinistre occidentali è divisa a metà, con i più radicali capitanati dall’indomito Bernie Sanders.
Sarà il suo messaggio più protezionista, più votato all’eguaglianza, più «sociale» a dominare il carattere del Partito democratico? Il manifesto lanciato alla fine di luglio lascia spazio alle interpretazioni, a partire dal suo slogan: «A Better Deal: Better Jobs, Better Wages, Better Future». Il fatto che ci sia la parola «deal» fa pensare a un semi-trollaggio dello stesso Trump, che come si sa va molto fiero della sua arte di negoziare, cui ha dedicato anche un libro. L’obiettivo è quello di parlare alla variegata – e vincente – «Obama coalition», che garantiva ai democratici il voto dell’élite come quello della working class. Il problema semmai è tenere insieme tutte la anime di questa coalizione, che ha aspettative anche contrastanti, che vanno dalla necessità di protezione a un istinto storicamente liberale e aperturista. Il rischio è l’indecisione, o peggio ancora la tentazione di rifugiarsi in un antitrumpismo banale, che può portare risultati nel breve periodo ma non risponde alla domanda principale: cosa è successo sì, ma soprattutto come si ritorna a essere primo partito degli Stati Uniti d’America?