Guarda che luna! (1)

/ 29.07.2019
di Maria Bettetini

Ecco, siamo andati sulla luna, tutti i diversamente giovani ricordano dov’erano quel giorno a quell’ora. Siccome era di notte, noi bambini fummo ingannati, vedemmo il grande passo per l’umanità a metà mattina come fosse in diretta, richiamati a gran voce mentre coglievamo carote, asparagi e patate nell’orto del nonno. Questa è una cosa bella, qualcosa di finto in un mondo che sarebbe diventato sempre più perfetto e tecnologico. Un piccolo spazio alla fantasia (nonostante il grande passo etc.). Un uomo con una grande tuta da sci e scarpe che poi sarebbero divenute molto popolari, i «moon-boot», appunto. Dopo questo passo (grande per l’umanità e così via) saremo ancora capaci di poesia nell’osservare il pianeta che ci nasconde sempre una parte di sé, che brilla grazie al sole, che ha, può avere un simpatico volto come nel film del 1902, diretto da Georges Méliès?

Il primo a cantare la luna, tra i testi che sono a noi arrivati, è Luciano di Samosata (II secolo d.C.), nella Storia vera dove si dice che l’unica cosa vera è che nell’opera non ci sia nulla di vero. Luciano racconta un viaggio sulla luna: la narrazione potrebbe essere stata ispirata dal romanzo Le incredibili meraviglie al di là di Tule di Antonio Diogene, che Fozio sostiene fosse l’oggetto della parodia di Luciano. Quindi innanzitutto una sorta di scherzo. Nella letteratura italiana la parola Luna appare per la prima volta nel Cantico delle creature di San Francesco (1224): Laudato sì, mì signore per sora Luna e le stelle.

Nel dizionario etimologico della lingua italiana, «luna» deriva dal latino, che avrebbe la sua origine nella radice indoeuropea «leuk» o «luc», che significa «splendere». Il termine latino, quindi, equivarrebbe a «la luminosa». Altri sostengono che il latino «Luna» sia la contrazione di «Lucina», appellativo dato alle dee lunari Diana e Giunone allorché venivano in aiuto delle partorienti. Anche il tedesco Mond e l’inglese Moon derivano dal nome di una divinità, Men.

Poi arrivò Dante: nel secondo Canto del Paradiso ha un dubbio riguardo all’origine delle macchie lunari visibili dalla terra. Beatrice gli consegna una spiegazione metafisica: la maggiore o minore intensità degli astri o di parti di essi è legata al diverso grado di compenetrazione nei cieli delle virtù angeliche. Petrarca trasforma la luna in metafora dei suoi stati d’animo malinconici e notturni; mentre la luna più romantica è quella di cui scrisse Giacomo Leopardi, il cui pastore errante, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, si chiede: «Che fai tu, Luna, in ciel? Dimmi che fai, silenziosa luna?» La luna è amica e consolatrice, nonostante l’angoscia generata dalla coscienza del reale contrapposto all’eterno.

All’indomani dell’arrivo dei primi astronauti sulla luna, Giuseppe Ungaretti, per sottolineare l’importanza dell’evento (vedi anche l’articolo qui sotto), scrisse: «Questa è una notte diversa da ogni altra notte del mondo. Ogni uomo ha desiderato da sempre conquistare la luna, oggi è stato raggiunto l’irraggiungibile, ma la fantasia non si fermerà» . Non credo però che si possa raggiungere la finezza di Leopardi: «O graziosa luna, io mi rammento / Che, or volge l’anno, sovra questo colle / Io venia pien d’angoscia a rimirarti: / E tu pendevi allor su quella selva / Siccome or fai, che tutta la rischiari. / Ma nebuloso e tremulo dal pianto / Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci / Il tuo volto apparìa, che travagliosa / Era mia vita: ed è, né cangia stile / O mia diletta luna».

Anche Baudelaire fa volare i nostri sogni: «Questa sera la luna sogna più? (…) Quando, / nel suo languore ozioso, / ella lascia cadere su questa / terra una lagrima furtiva, / un pio poeta, odiatore del sonno, / accoglie nel cavo della mano questa pallida lacrima / dai riflessi iridati come un frammento d’opale, / e la nasconde nel suo cuore agli sguardi del sole». Come D’Annunzio: «O falce di luna calante / che brilli su l’acque deserte, / o falce d’argento, qual mèsse di sogni / ondeggia al tuo mite chiarore qua giù». Giungendo ai nostri giorni, perché non ascoltare la voce forte e rauca di Alda Merini: «La luna geme sui fondali del mare, / o Dio morta paura / di queste siepi terrene, / o quanti sguardi attoniti / che salgono dal buio / a ghermirti nell’anima ferita». Il più sapiente però sembra il bambinesco e divertito Gianni Rodari: «Sulla luna, per piacere, / non mandate un generale: / ne farebbe una caserma / con la tromba e il caporale. / Non mandateci un banchiere / sul satellite d’argento, / o lo mette in cassaforte / per mostrarlo a pagamento. / Ha da essere un poeta / sulla Luna ad allunare».

Dedico queste righe alla mia professoressa di greco del liceo, che si disperava perché tutta la classe non comprendeva le ipotetiche di non ricordo quale grado, e a me chiedeva di prendere sul serio il tema della luna.