Le esperienze delle primissime settimane «sul campo», come si dice in gergo, sono forse le più cruciali nella vita di un giovane antropologo. L’incontro (e spesso lo scontro) con quella che il gergo chiama «l’Alterità» si svolge infatti a livello delle esperienze di base, elementari forse per chi ti ospita ma per te del tutto nuove, aliene, spesso sconcertanti. «Novità» che presto finiranno per scomparire dagli schermi radar del taccuino d’appunti per divenire scontati come la tappezzeria di una stanza d’albergo che, fatto il check-out, uno non è più in grado di descrivere.
Subentrerà allora la routine degli eventi quotidiani con le sue noie e le sue distrazioni, fino a quando tutto finirà per essere «normale» e scontato. O meglio: fino a quando la diversità del quotidiano non farà essa stessa parte dell’abituale e del già visto. Ed è quello il momento di fare lo sforzo, spesso molto difficile, di tornare a casa. Dicono dell’Africa, e con una misura di verità, che se uno in Africa vive una settimana scrive un libro, se ci sta un mese scrive un saggio e dopo un anno non scrive più nulla. Questo perché, per quanto detto sopra, la superficie appare col tempo esplorata e garantita, mentre d’altro canto l’osservatore che abbia superato la fase di quella condizione morale che in inglese si chiama con il termine intraducibile jaundice (Noia? Svogliatezza? Spossatezza mentale?) comprende che capire fino in fondo, raggiungere le profondità remote di una cultura «Altra» è in pratica impossibile. O richiederebbe una capacità di «apnea morale» che solo pochi, pochissimi atleti nel nostro campo ottengono dopo anni di sforzi e di allenamento. Agli altri – come si dice – basta partecipare.
Ricordo, ad esempio, l’impressione che mi fece la pratica dei sacrifici animali nelle prime settimane del mio soggiorno a Jang, nel Ghana del Nord, nell’ormai lontano 1983. Sembrava che la gente altro non avesse da fare che sgozzare polli, capre e pecore – un’escalation che raggiunse l’apice con la stagione dei funerali, quando vacche e tori completavano la macelleria generale. I sacrifici erano sempre – o quasi – un fatto pubblico. Un sacrificio effettuato «in privato» era un sacrificio fatto di nascosto a questa o quella divinità, e spesso per ragioni poco oneste se non per stregoneria. Le procedure cominciavano presto, sul fare dell’alba.
Al termine del lungo e tedioso giro nelle case dei capi, degli anziani e dei vicini per scambiarsi il buongiorno, gli anziani specialisti della divinazione estraevano dalle sacche in pelle consunte gli attrezzi del mestiere e via si cominciava. Tutti prima o poi interrogavano l’oracolo. Su tutto: da questioni matrimoniali a sterilità e malattie. Da questioni agricole a consigli per gli acquisti – se comprare una bicicletta x o y, se andare o no a quel funerale nel villaggio z – e, ah sì, anche per quale sentiero, grazie. Insomma, antenati, spiriti della foresta, divinità-medicina, dei di ogni ordine e grado tutti assoldati ad emettere – dalle cinque alle sette di mattina – il bollettino di prevenzione delle disgrazie per tutto il villaggio.
Più spesso che no il verdetto si concludeva con la prescrizione di un sacrificio animale a scanso di guai e per favorire il corso benevolo dell’impresa in questione. Allora si vedevano i bambini sfrecciare di cortile in cortile agitando fasci di banconote (con l’inflazione di allora si andava a far spesa nei mercati con le sportine di plastica piene di pacchi di banconote) alla ricerca affannosa di un pollo, di una gallina, di un qualche straccio di volatile del colore (molto importante il colore!) appropriato al sacrificio in questione. E qui cominciavano i guai. Notai presto che polli nel villaggio ce n’erano pochi. Molti pulcini morivano di malattia, altri venivano razziati dai falchi, il resto era sacrificato ben prima di potersi riprodurre. Col risultato che più spesso che no i miei amici Vagla dovevano recarsi nei villaggi dei tanto disprezzati Lobi e lì comprare a caro prezzo quello che era – peraltro – molto spesso il risultato di furti di pollame dai villaggi Vagla. Ma tant’è: c’est l’Afrique.
Verso le nove del mattino cominciavano i riti sacrificali. Piccoli capannelli di persone si radunavano attorno ad un anziano che fungeva da celebrante. L’animale veniva consacrato alla divinità di turno e poi passato ad uno specialista che lo sgozzava. Il volatile veniva poi gettato a terra. Dalla postura nella quale sarebbe morto si deduceva se il verdetto oracolare fosse favorevole o contrario. In caso fosse negativo, si doveva ricominciare da capo.
In Africa nessuna uccisione di animali è condotta al di fuori di una procedura sacrificale che implica poi una dedica all’antenato o agli dei. Come mi spiegava l’amico Pentu, grande cacciatore di Jang: «Uccidere anche solo un pollo non è una sciocchezza. Non si fa a cuor leggero. Uccidi perché devi vivere, non vivi per uccidere. E sai che ogni morte che infliggi ad un altro essere vivente avvicina anche la tua». Queste parole mi erano ritornate alla mente quando guardavo le decine di sagome di animali da banchetto natalizio disegnate dai militanti animalisti nelle strade del centro di Bologna La Grassa. Dove nessuno si prenderà la briga di consacrare il suo cappone prima di farci il brodo dei tortellini – né tantomeno i virtuosi animalisti potranno immaginare come ci sia modo e modo per farlo. Buone Feste a tutti.