«Dire sempre la verità a sé ed agli altri»: se Giuseppe (Peppo) Lepori, deceduto cinquant’anni fa a sessantasei anni, fosse stato Papa e non consigliere federale, molto probabilmente avrebbe elevato questa massima a suo motto personale, principio e guida della sua azione politica.
Nato a Massagno nel 1902 da una famiglia di origini capriaschesi, Lepori fu un politico anomalo. Certo, anche lui, come parecchi suoi colleghi, intraprese lo studio del diritto (laureandosi nel 1925 a Friburgo); anche lui ricalcò, passo dopo passo, le orme dei predestinati alla carriera, un itinerario che prevedeva l’affiliazione alle società studentesche, il noviziato nel giornalismo politico (nel caso specifico, prima nel neonato «Giornale del Popolo» di don Leber, poi al «Popolo e Libertà», l’organo ufficiale del Partito conservatore), per poi salire i tre gradini classici: municipio, Gran consiglio, Consiglio di Stato. Tanti impegni, tante cariche onerose (tra cui la presidenza del partito), meno una, ritenuta di solito fondamentale per completare l’armoriale: l’elezione a deputato in una delle due Camere federali. E questo è rimasto un fatto unico nei percorsi di accesso all’esecutivo federale, prima e dopo Lepori.
Si diceva dell’anomalia. Fin dagli anni del liceo, e forse anche prima, Lepori avrebbe voluto dedicarsi alle «belle lettere», come usava dire allora. A lungo rimase indeciso se avviarsi verso gli studi di letteratura o di giurisprudenza. Lo seduce soprattutto la poesia, come testimonia la sua assidua collaborazione alla rivista «Pagine nostre», fondata all’indomani della grande guerra. Ma tutta la sua prosa, anche quella spiccatamente politica (almeno nelle intenzioni), rivela un interesse mai spento per autori antichi e moderni. Un florilegio di versi uscirà in volume nel 1928 sotto il titolo Le canzoni del Fauro, raccolta che Francesco Chiesa saluterà con favore: «ho trovato nelle sue pagine espressione di vera, sentita poesia, robustezza e delicatezza…».
Eletto in Consiglio di Stato nel 1940, assunse la direzione del Dipartimento della pubblica educazione, che dovette poi abbandonare, con «grande rincrescimento», nel 1947, vittima dell’alleanza radico-socialista, ovvero del patto che i due liberali (Brenno Galli e Nello Celio) e il socialista Guglielmo Canevascini avevano stretto alle sue spalle. Fu una manovra accolta da Lepori e dal suo partito come un’umiliazione, giacché non sembrava che il lavoro svolto durante la guerra fosse stato infruttuoso. Anzi, Lepori aveva profuso molte energie e ottenuto risultati tangibili soprattutto nel campo della salvaguardia del «volto italico» del cantone, strappando a Berna, con le «nuove rivendicazioni», un sostanzioso aumento del sussidio destinato alla difesa dell’italianità e dei monumenti storici e artistici.
L’ascesa a consigliere federale nel 1954 fu interpretata come un atto riparatore. Purtroppo la sua permanenza al Dipartimento a lui affidato (Poste e ferrovie) fu breve: un’emorragia cerebrale lo costrinse alle dimissioni già nel 1959, interrompendo un’attività che all’opinione pubblica era parsa promettente.
Per Lepori la politica era innanzitutto missione, un impegno sorretto da un afflato etico che traeva la sua forza da una fede cattolica vissuta come un sacerdozio al servizio della comunità. Fin dall’esordio considerò il Partito conservatore-democratico come l’alveo naturale in cui riversare la sua passione. Un partito che però andava rigenerato, troppi erano i difetti: «mancanza di organizzazione, onde la lotta politica invece di essere di convinzione e di educazione che non cessa nemmeno per un giorno, è lotta di pressione e di agitazione di pochi giorni; mancanza anche di serenità e di serietà, per cui sistemi odiosi sono messi in azione per fare, non proseliti, ma schede».
Occuparsi di Lepori, a mezzo secolo dalla scomparsa (6 settembre 1968), vuol dire soffermarsi su alcune fasi cruciali del Novecento: gli anni ’20 e ’30, con l’affermazione dei regimi totalitari; il secondo conflitto mondiale, la guerra fredda, la ripresa economica che schiuse anche al piccolo, asfittico Ticino nuovi orizzonti.
Nel 1960, Lepori stese per la rivista «Svizzera italiana» un testo che possiamo considerare il suo testamento: «Bilancio di una generazione politica». Sono pagine meditate e a tratti commosse, rare nella prosa di un politico, che permettono di penetrare nella sfera morale intima di un magistrato che non amava, come molti suoi colleghi, le luci della ribalta. È un articolo – ripubblicato nel volume Scritti di Giuseppe Lepori, Dadò editore, 1978 – che meriterebbe senz’altro di figurare in un prossimo «manuale di educazione civica» destinato alle scuole.