I gilet gialli che manifestano in Francia contro il presidente Emmanuel Macron da quasi un mese hanno ottenuto il loro primo risultato: le tasse su benzina e diesel non saranno aumentate a gennaio, la moratoria durerà almeno sei mesi, un tempo sufficiente per arrivare oltre alle elezioni europee del prossimo maggio. Togliendo la prima ragione di questa protesta nata spontaneamente, Macron sperava di disinnescare la minaccia gialla, ma ormai la manifestazione ha perso i connotati iniziali, la benzina è stata il pretesto per mettere in piazza ben altro, la «colère» come la chiamano i francesi, la rabbia di tutto un Paese contro il proprio presidente. Se si leggono i comunicati che via via sono stati fatti dai tanti portavoce dei gilet gialli si vede che il carobenzina ha fatto da aggregatore, ma non è più il tema principale: ora si punta contro le riforme liberali, contro il sistema stesso rappresentato da Macron, il suo afflato europeista e aperturista. In piccolo, nelle piazze di Francia, c’è uno scontro più grande, che è quello che ci sarà alle europee e che è quello che c’è già stato nelle tornate elettorali dal 2016 a oggi e che ha da sempre a che fare con la rabbia, con l’insofferenza, con il popolo che vuole riprendere la parola, e gridare forte.
Alcune caratteristiche di questa piazza si notano subito: la prima è la violenza. Non nascevano violenti, i gilet gialli. Volevano scioperare, bloccare il Paese, far notare la propria rilevanza, se noi decidiamo che non ci muoviamo più alle vostre condizioni, siete voi ad avere un problema. Una protesta più delle campagne, perché come è noto a Parigi pochissimi possiedono l’auto (meno del 40 per cento dei parigini), la benzina è un affare rurale, potentissimo e legittimo. Ma presto la collera ha avuto il sopravvento, e sono arrivati i saccheggi, le auto bruciate, gli scontri con la polizia: una parte dei gilet si è smarcata e ha cercato un dialogo difficile con il governo, per portare avanti la propria battaglia lontano dalle colonne di fumo.
La seconda caratteristica è tutta francese, ha a che fare con una lunga tradizione di proteste e di passi indietro da parte dei vari governi. Senza tornare al maggio del 1968, che nel nostro immaginario è l’unica piazza francese che ha attecchito in modo irreversibile, ci sono state manifestazioni contro riforme sull’istruzione, sui trasporti, sulle tasse e più o meno tutte hanno avuto un prezzo politico grande per chi era al potere. È per questo che Macron è stato accusato di aver capito con troppo ritardo la potenza dei gilet gialli e di aver iniziato a negoziare quando ormai l’opinione pubblica si era compattata contro di lui. L’unica salvezza, forse momentanea, è che nessun partito è riuscito finora a intestarsi la protesta: tutti, dai gollisti Répulicains fino agli «insoumis» di Jean-Luc Mélenchon, la sinistra radicale, chiedono le dimissioni del governo (e magari di Macron) e la sospensione delle riforme, ma nessuno riesce davvero a trovare una formula che non suoni soltanto come opportunismo. Il tempo gioca contro il presidente: ogni fine settimana di blocchi e saccheggi aumenta le pressioni su di lui.
C’è poi il contesto internazionale, che ci riguarda tutti. I gilet gialli non sono più soltanto un fenomeno francese: basta vedere come quel giubbetto catarifrangente corre sui social media e si declina in altre lingue, dal tedesco all’inglese, per farsi ultimo simbolo di una battaglia che comprende tutto l’occidente. Macron è comunque il bersaglio, poiché è il rappresentate di una visione liberale e globale, e lo è non soltanto in Francia, anzi è quasi rimasto testimonial unico in occidente (Angela Merkel, in Germania, ha appena dato spazio alla sua successione). I suoi nemici, di destra e di sinistra, si sono uniti contro di lui, ironia assoluta per un leader che era a sua volta incarnazione di un processo anti sistema per quanto senza rabbia e centrista. Questa convergenza mette insieme sovranismi, nazionalismi, terzomondismi di varia natura e geografia, ma tutti compatti nel cercare il loro bersaglio. Ed è questo quel che preoccupa di più, perché la contrapposizione ideologica è uscita dal confronto verbale, spesso a distanza, è uscita dal palazzo ed è diventata invece scontro di strada. Le conseguenze saranno rilevanti molto oltre i confini francesi ed è anche per questo che il consueto fascino della protesta di Francia, così intensa e fotogenica e irraggiungibile, questa volta si sente meno, anzi forse non c’è.