Francia e Italia, rivali intrecciate

/ 07.08.2017
di Aldo Cazzullo

La Francia che affonta la questione Libia. La Francia che non accoglie i migranti sbarcati a Lampedusa. La Francia che tollera che i cantieri navali bretoni diventino coreani, non che diventino italiani. Tre schiaffi in pochi giorni hanno fatto chiaramente capire a Roma che da Macron non possono attendersi molto più di nulla. Forse sarebbe ingenuo aspettarsi il contrario. Certo colpisce il divario tra un sistema politico che funziona, semplifica, individua una leadership e le dà cinque anni a disposizione, e un altro – quello italiano – che si avvia allegramente verso il marasma generale, un’improbabile resurrezione berlusconiana, i singulti del renzismo tramontante, un’alternativa populista e sovranista incarnata da Salvini, Meloni, Grillo.

Eppure non esistono due popoli in Europa più legati tra loro, dalla storia più intrecciata, di italiani e francesi. Tant’è che in Italia sono molti a pensare, più o meno seriamente, che dopo aver dato alla Francia due regine – Caterina e Maria de Medici, un cardinale quasi re – Mazzarino – , un imperatore – Napoleone, nato nell’ex colonia genovese della Corsica da famiglia toscana – , un primo ministro – Léon Gambetta, figlio di un droghiere genovese – e un capitano della nazionale – Michel Platini – , sarebbe tempo di riprendersi qualcosa.

«L’Italia non è un paese povero; è un povero paese» diceva De Gaulle. È vero però che, senza la Francia, l’Italia non ci sarebbe: assenti i piemontesi sul campo di Magenta, dove gli zuavi aprirono le porte di Milano e accolsero gli alleati in ritardo con urla di scherno; cruento ma marginale lo scontro del colle di San Martino, nel quadro della grande battaglia d’incontro vinta a Solferino da Napoleone III su Francesco Giuseppe.

La rivalità è ovviamente anche calcistica, ravvivata dalla testata di Zidane nella finale dei Mondiali 2006. Italia-Francia fu la prima partita della storia azzurra: 15 maggio 1910, Arena di Milano; 6 a 0 per l’Italia. Se è per questo, nel ’25 a Torino i gol furono 7, sempre a 0, con tripletta di Baloncieri e doppietta di Levratto, quello che spaccava le reti. Giocano in casa anche nel ’38 i francesi, ma vengono travolti a Parigi per 3 a 1; gli azzurri di Pozzo, che non appartiene all’antifascismo torinese, dominano al punto che pure i fuoriusciti, dopo aver fischiato a Marsiglia l’esordio con la Norvegia, finiscono per applaudire la doppietta di Piola e il gol di Colaussi, che si chiama in realtà Colàusig. Hanno trovato riparo in Francia Nenni, Turati, Sereni, Saragat, Pertini, Amendola, Lussu, Valiani, Pajetta, Nitti, Trentin, Buozzi. L’anno prima i fascisti della Cagoule hanno assassinato i fratelli Rosselli. Una delle figlie di Bruno Buozzi, fucilato dai nazisti in fuga da Roma, sposerà il futuro segretario del partito socialista francese, Gilles Martinet. Ambasciatore di Mitterrand a Roma, Martinet ha lasciato nel suo libro Les italiens i ritratti di Andreotti, Craxi, Bobbio, Rossanda, Fellini, Agnelli, De Benedetti, Maraini, Eco. Un mese dopo la vittoria al Mondiale del ’38, Gino Bartali vince il Tour: «Ils gagnent tout, ces italiens» brontola Albert Lebrun, presidente della Repubblica. Due anni dopo il Duce dichiara guerra alla Francia, l’alleata del 1859 e della Grande Guerra. «Nizza, Savoia, Gibuti, Tunisi». Reparti alpini si ammutinano: non vogliono combattere nelle terre dove d’estate emigrano per lavorare. A Torino Edgardo Sogno spalanca le finestre perché i vicini ascoltino la radio francese che trasmette la Marseillaise. Finisce con migliaia di italiani congelati – a giugno – , i tedeschi a Parigi e i francesi che rifiutano di chiedere l’armistizio a un nemico che non li ha battuti.

L’ossessione dei francesi per l’Italia è antica. 1575: da quasi un secolo le armate di Carlo VIII, Luigi XII, Francesco I percorrono l’Italia nel vano sogno di conquistarla, quando François Hotman, uno degli spiriti più brillanti del Rinascimento d’Oltralpe, denuncia: «Lione è piena di finanzieri italiani; Parigi, pure. Le fattorie e le rendite di tutti i vescovi e di tutte le abbazie sono nelle mani degli italiani, che succhiano il sangue e il midollo del povero popolo francese». La Francia aspirante conquistatrice fu conquistata dai banchieri lombardi e dai mercanti genovesi, come ha dimostrato Jean-Marie Dubost nel suo La France italienne. Il prestigio degli italiani è tale che i francesi affidano loro pure la guerra: Giuseppe Gamurrini comanda l’esercito di Luigi XIII; Richelieu manda Pompeo Targone ad assediare La Rochelle. Non tutti fanno fortuna: Concino Concini, Rasputin di corte grazie all’influenza della moglie astrologa e fattucchiera, cade in disgrazia, viene assassinato e poi fatto a pezzi dalla folla. Tre secoli dopo, ad Aigues-Mortes, finiranno linciati anche gli emigrati che fanno crollare i salari in Provenza.

Lo scontro e lo scambio non sono mai finiti. L’Italia esporta Coluche e Belmondo, la Francia le fa riscoprire Paolo Conte e Gianmaria Testa. Le fughe di Mitterrand a Venezia, seguito da Lang e da Pinault, e l’esilio parigino di Calvino e Fruttero&Lucentini. Le vacanze romane di Sartre e Simone de Beauvoir e le zampate a Pigalle del giovane chansonnier Berlusconi («L’Eliseo ce l’ha con me, ma alle donne francesi sono sempre piaciuto moltissimo»). La commistione è tale che si fatica a distinguere, e la Gioconda che Leonardo porta con sé nei castelli dei Valois è considerata dai turisti sulle orme di Dan Brown un quadro francese.

Forse le incomprensioni sono anche colpa di un grande equivoco: gli italiani pensano di essere disprezzati dai francesi, che invece li amano; pur sentendosi migliori di loro. Ed è per questo che, come ricordava l’Avvocato Agnelli, «i francesi possono vincere o perdere; ma se a batterli è l’Italia, la cosa li fa soffrire di più».