Tutto questo caldo non può essere un buon segno, dicono gli inglesi boccheggianti, registrando le temperature record dell’estate londinese, alternate a scrosci d’acqua celebrati come un ritorno brusco alla normalità. È la terza estate di fila del discontento, per il Regno Unito: nel 2016 il voto shock a favore della Brexit, nel 2017 le elezioni non vinte dal governo conservatore e la formazione di una nuova maggioranza (assieme all’incendio devastante alla Grenfeel Tower e gli attentati terroristici), nel 2018 un caldo infernale con il negoziato sulla Brexit ancora appeso a risultati ignoti. Il tempo per gioire di nuovo arriverà, sostengono i più ottimisti, ma intanto si vive come addormentati, nell’incertezza di come ci si sveglierà domani. La Brexit è sempre lì, uguale a se stessa: se non ci fosse una scadenza – il 29 marzo del 2019 – si potrebbe addirittura provare a dimenticare un movimento così poco armonioso senza una destinazione precisa. Invece no: l’uscita dall’Unione europea va fatta, l’ha chiesta il popolo. Ma come?
A ottobre ci sarà un vertice europeo in cui si devono definire i dettagli del nuovo rapporto tra Londra e Bruxelles ma al momento le alternative sono più o meno simili a quelle che ci sono da sempre: non ci si accorda su nulla o si rifà tutto. La premier Theresa May ha offerto un’alternativa: è il cosiddetto «piano dei Chequers» che è stato presentato e accettato dal governo a un incontro d’inizio luglio nella residenza estiva dei Chequeres. Inizialmente, l’accordo era sembrato un momento importante nella storia della Brexit, perché per la prima volta la May aveva elaborato una proposta in grado di garantire sì il divorzio dall’Ue ma senza accidenti eccessivi dal punto di vista commerciale: di fatto prevede la creazione di un’area di scambio tra il Regno e l’Unione europea che replica le condizioni già vigenti oggi.
I ministri avevano brindato all’accordo, ma poi una volta fuori dal ritiro si erano rimangiati la festa: due di loro, Boris Johnson, titolare degli Esteri, e David Davis, titolare del dipartimento per la Brexit, si erano dimessi di lì a pochi giorni. Per i sostenitori della Brexit, il piano dei Chequers era un compromesso troppo debole: la May è parsa in bilico, con i falchi pronti ad avventarsi sulla sua fragilità, ma poiché manca un sostituto credibile e una soluzione alternativa non c’è, i ministri fuoriusciti sono stati rimpiazzati e la premier ha dimostrato ancora una volta la sua resistenza.
L’Europa ha guardato il piano dei Chequers e ha iniziato a trovarci molti difetti: se è vero che va incontro a molte richieste Bruxelles, non esclude quello che per l’Europa è inaccettabile, cioè la selezione di elementi dell’Ue che vanno bene e l’esclusione degli altri. O tutto o niente è da sempre il diktat europeo e così l’iniziale entusiasmo si è sfilacciato, lasciando spazio alla più terribile delle conseguenze: il mancato accordo. Da un paio di settimane i media inglesi non parlano d’altro (oltre al caldo naturalmente) e dicono che è necessario prepararsi a un’uscita brusca, un giorno si è dentro l’Ue e quello dopo si è fuori.
Il ministro che ha preso il posto di Davis, Dominic Raab, ha avuto la malaugurata idea di parlare di «riserve di cibo e medicinali»: voleva essere rassicurante, in realtà, ma ha ottenuto l’effetto contrario. La May è andata in suo soccorso, dicendo che tra i piani da contemplare c’è quello delle riserve, per non trovarsi impreparati, ma non ha risolto granché, anzi. Le catene di supermercati hanno detto di non essere stati avvisate di questa politica delle riserve, mentre i giornali si sono riempiti di scenari apocalittici con porti assediati da navi con merci deperibili, autostrade intasate dai camion e sì, il razionamento di cibo.
Di fronte a tanto scoramento, gli anti Brexit hanno colto l’attimo per rilanciare l’unica idea ormai per loro plausibile: un nuovo referendum. Vista da vicino la Brexit fa paura, ce ne siamo resi conto un po’ tutti, chiediamo agli inglesi se hanno cambiato idea. Nessuno dei due grandi partiti vuole un’altra consultazione: i Tory per ovvi motivi, il Labour invece perché ancora non si è convinto di quale sia la strada giusta per provare a cacciare il governo conservatore. L’ambiguità è la cifra del leader laburista Jeremy Corbyn, il quale non ha proposto alternative al piano della May ma allo stesso tempo non si è affezionato all’idea di un secondo referendum, che è sostenuta in particolare dai moderati del Labour, suoi nemici giurati. La piazza si è mobilitata come non si vedeva da un po’, ma il referendum deve essere deciso a livello parlamentare: i tempi sono stretti, per fare la legge che ha portato alla consultazione del 2016, l’allora governo Cameron ci mise sette mesi.
Così la via di mezzo del negoziato al momento sembra la più impraticabile – anche se finora, pure nei momenti più bui, un pertugio per ricominciare si è sempre trovato – e le due alternative a disposizione sono entrambe estreme. Che è un po’ la storia del discontento britannico, pure quando fa freddo.