Il giudizio dell’Alto commissario dell’ONU per i diritti umani, Zeid Ra’ad al-Hussein, è tranciante: quello che sta accadendo ai musulmani Rohingya nella provincia birmana di Rakhine è «un esempio da manuale di pulizia etnica». Gli assassinii, gli stupri, i roghi appiccati a villaggi interi, perpetrati dall’esercito birmano dalla fine di agosto, hanno spinto quasi 400mila persone – un quarto dei Rohingya in Myanmar – a cercare rifugio nel Bangladesh, dove sopravvivono in condizioni disumane. La tragedia porta alla ribalta il destino di una comunità dimenticata, in cui un antico conflitto etnico si salda a fondamentalismi religiosi esistiti già in precedenza ma oggi esaltati dal risveglio di un Islam più pugnace, e si incunea in un contesto geopolitico regionale in movimento, quello del Sud-est asiatico, dove gli equilibri locali di ieri vengono ridefiniti, dalla Cina all’India, dalle Filippine alla Thailandia, al Myanmar appunto.
Chi sono i Rohingya? Musulmani sunniti stabilitisi da secoli in una regione costiera della Birmania (oggi Myanmar) che si affaccia sul Golfo del Bengala, secondo alcune fonti fin dal XV secolo; il governo e la maggioranza buddista li considerano invece semplici immigrati bengalesi, perciò è negato loro qualsiasi diritto: dal 1982 i Rohingya non hanno cittadinanza birmana, non possono votare, non possono spostarsi da un luogo all’altro, l’accesso alle scuole e agli impieghi pubblici è impedito... Nella provincia in cui vivono ci sono forti tensioni con la maggioranza buddista, fomentate dal clero buddista (nel Myanmar come nello Sri Lanka, apertamente anti-islamico), una delle trainanti forze scioviniste. Scoppi di violenza ed esodi massicci sono avvenuti già in passato, nel 1978 e negli anni 1991-1992 (quando ne fuggirono 250mila), ma le dimensioni assunte dalla fuga in massa di queste settimane, la violenza che l’ha generata, sono senza precedenti. In realtà è dall’uccisione di un monaco buddista nel 2012 che le violenze sui Rohingya si susseguono e aumentano. Ma da un anno si è formata una guerriglia, la Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), che si è fatta notare attaccando nell’ottobre scorso tre postazioni della polizia di frontiera e ora, il 25 agosto, una trentina di posti di polizia. La risposta dell’esercito birmano è stata tremenda, nonostante il giorno prima, il 24 agosto, l’ex segretario generale dell’ONU Kofi Annan, consegnando il suo rapporto sulla situazione nel Rakhine, avesse ammonito che una eccessiva risposta militare alle violenze in corso avrebbe soltanto acuito il conflitto.
Le reazioni dei governi limitrofi e della comunità internazionale rivelano imbarazzo, cautela, ma anche calcolo politico e cinismo. La Thailandia tace, deve già occuparsi dei profughi Karen, Kachin e Shan fuggiti dalla Birmania, inoltre nelle sue province meridionali conduce da anni una lotta armata contro secessionisti islamici. La Malaysia musulmana cerca di trarre capitale politico dagli aiuti che spedisce al Bangladesh. L’India dice che il governo birmano ha il diritto di lottare contro il terrorismo (islamico). In Bangladesh non sanno bene cosa farsene di altre centinaia di migliaia di nuovi profughi, benché musulmani... Ma anche l’Occidente per ora tace, imbarazzato dalla brutta piega che sta prendendo la politica di apertura del Myanmar. Soltanto singole voci si ergono a chiedere ad Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e oggi primo ministro del governo birmano (ma sotto la tutela degli onnipotenti militari), un intervento contro le violenze sui Rohingya. San Suu Kyi, invece, non si espone, non getta il suo peso morale sul piatto della contesa – oppure condivide l’opinione generale dei suoi concittadini?