A fine febbraio trovo la notizia della presentazione di un nuovo videogioco, uno dei tanti intrattenimenti digitali che per noi della terza generazione sono assai simili al guardare la vernice che essicca. Il tema di quel gioco però mi colpisce, tanto da far scattare prima un moto di stizza: a questo si doveva arrivare, mi sono infatti subito detto. Proseguendo nella lettura del messaggio ho però cambiato idea; anzi: l’ho diametralmente girata di 180 gradi fino a trovarmi sulla sponda opposta. «Salaam» (questo il nome del videogioco) si ispira alla realtà di milioni di persone costrette a fuggire dai paesi in guerra, conflitti tribali e razziali, povertà. Ecco perché d’acchito si vede qualcosa di perverso nello sconfinamento del gioco elettronico nel campo della disperazione e della tragedia umanitaria. Come mostrava e spiegava Repubblica Tv, il gioco c’è, ma è sceneggiato in modo da far capire cosa significhi affrontare un «viaggio della speranza». È stato creato e sviluppato da Lual Mayen, un venticinquenne di Washington che, prima di arrivare in America con la sua famiglia sud-ugandese, ha trascorso venti anni in un campo profughi nel nord dell’Uganda. Ora Mayen vive e lavora negli Usa, ma è in quel campo che ha imparato programmazione, seguendo, su un pc acquistato con grandi fatiche da sua madre, lezioni di informatica diffuse su YouTube. Presto il suo video sarà disponibile anche fra i videogiochi di Facebook cui hanno accesso milioni di persone. Così ogni volta che un giocatore di «Salaam» comprerà cibo per aiutare i profughi del gioco, lo comprerà anche nella realtà, aiutando i profughi rimasti nel campo ugandese dove Lual è cresciuto.
Ho incontrato questa storia a lieto fine proprio mentre ero alla ricerca nei miei archivi (l’ormai vetusto iMac e qualche scatolone di quel che mi resta del lavoro in redazione) di alcune fotografie utili per risalire nel tempo e ricollegare certi eventi e mi consentisse di tracciare una sorta di «fil rouge» con una recentissima istantanea: migliaia di siriani lasciati liberi da campi profughi in Turchia incamminati verso la frontiera greca nelle pianure a est di Salonicco, dove esercito e facinorosi dell’estrema destra sono decisi a bloccarli con tutti i mezzi. Su questa recente foto si vedono alcune centinaia di uomini, donne, anziani, ragazzini e molti bambini pigiati come formiche al limitare di un bosco in attesa di lanciarsi alla ricerca di varchi nelle reti del confine turco-greco. L’esodo è stato architettato dal premier turco per ricattare l’Unione europea capace di commentare stizzita più che indignata la sfida turca, ma non di biasimare la propria debolezza e l’inerzia di governi sempre più votati a un bieco sovranismo.
La mia ricerca ha avuto esiti differenti. La foto più vecchia (in realtà una diapositiva) non l’ho ritrovata; di sicuro comparirà senza cercarla, a conferma del tic che da sempre mi spinge a conservare le immagini di momenti particolari o «vissuti» emozionalmente. Ricordo di averla ricevuta da un’agenzia (si chiamava Dukas) che ogni settimana ci forniva immagini di attualità su diapositive in modo che la definizione consentisse la pubblicazione in grande formato su «Azione». Comunque, basta digitare «foto nave profughi albanesi» e in Google troverete immagini purtroppo dimenticate che definire dantesche o «bladerunneriane» è sicuramente riduttivo. Testimoniano l’arrivo a Bari trent’anni fa di una nave stracolma di profughi che fuggivano da dittatura, comunismo e povertà in Albania. Ho ritrovato invece quasi subito l’altra foto, avendola digitalizzata: il fotografo aveva saputo catturare momenti ancor più drammatici e struggenti, una sterminata folla di profughi, sempre siriani, in fuga da Aleppo a fine febbraio del 2014, quindi sei anni fa. Anche qui si vede una lunghissima fila di donne e uomini, molti i giovani, che sfilano fra edifici sbriciolati dai bombardamenti in una via del centro della città siriana. Guardandola arrivo a pensare che qualcuno dei fuggiaschi ritratti ad Aleppo possa figurare oltre duemila giorni dopo anche in quella scattata al confine con la Grecia.
La traccia per una conclusione la trovo nelle parole della cancelliera Angela Merkel, pronunciate proprio in avvio del dramma siriano: «All’ospitalità tedesca per i Flüchtlinge non c’è limite alcuno». Pochi mesi dopo Grecia e isola di Lesbo erano state persino proposte per il Nobel della pace, come omaggio alla Grecia per gli slanci della popolazione nell’accogliere profughi in fuga dalla Siria. Oggi c’è il voltafaccia generale: divieti ed escalation di violenze confermano che gli impegni morali e politici in favore dei richiedenti l’asilo non rientrano più nella linee guida e nei propositi di Stati sempre più ripiegati su derive nazionalistiche che stanno decretando all’Unione europea e all’Occidente un futuro di chiusura e di egoismo.