Filosofi in cucina

/ 11.12.2017
di Maria Bettetini

Quando si dice l’imbarazzo della scelta. I suggerimenti per il cenone della Vigilia e il pranzo di Natale hanno già invaso giornali e trasmissioni, non parlare di cucina è una grave pecca, il contrario di quello che insegnava la buona educazione: a tavola mai parlare di cibo, fuori dalla tavola solo il minimo indispensabile. Per noi invece è l’argomento forte dell’informazione e dell’intrattenimento. A noi non dispiace, in fondo – tranne quando eviscerano e spennano in diretta – è un bel vedere, qualcosa si impara, in un angolino del cuore siamo tutti un po’ cuochi, anzi chef.

Ma che cosa ne avrebbero detto i nostri amici, i filosofi? Avrebbero apprezzato questa centralità della cucina nel quotidiano? E che cosa infine avrebbero, o avranno preparato per le feste? Non sono domande da poco, per questo ci permetteremo la libertà di invitare al desco anche coloro che delle festività natalizie non hanno avuto idea: ogni epoca e ogni luogo avrà ben avuto il suo Natale, capodanno poi vien per tutti. Di Socrate, per esempio, conosciamo la passione per i banchetti. Con i suoi amici, rigorosamente maschi, su larghi futon a due o tre posti, si accomodavano a raggiera intorno al cratere del vino.

Un vinaccio non tagliato, puro, quindi denso e forte. Prima mangiavano, poi bevevano e discutevano di un argomento scelto per la serata, finché crollavano dal sonno, ubriachi. Tutti tranne Socrate, che come leggiamo nel Simposio di Platone, all’alba abbandona gli amici e va in palestra. Come uno che dopo il pranzo di Natale decidesse di dedicarsi alle flessioni. Inutile poi pensare di invitare Epicuro e i suoi, non sia mai che qualche prelibatezza culinaria, o un sorso di vino, potessero dar piacere a quel gruppo di uomini (e donne, caso unico nell’antichità), rompendo così l’armonica atarassia, «assenza di turbamento» raggiunta evitando ogni piccolo piacere e ogni piccolo dolore.Non è masochismo, è solo voler essere lasciati in pace, come quel parente che non c’è mai per feste e pranzi, e tutti pensano al brutto carattere, alla depressione, alla salute: macché, in genere vuole stare per i fatti suoi. Un problema che certo non era quello di Marco Tullio Cicerone, uomo di mondo che piuttosto si sarà domandato se lo si notava di più essendo presente a una festa, o invece non facendosi vedere.

Ai nostri tempi Nanni Moretti ha ben esplicitato il concetto fin da Ecce Bombo: Vengo? Ma mi si nota di più se vengo e sto in disparte, oppure se non vengo? Cosa c’era in tavola, poi, non era un problema per Cicerone. Uno che al mattino mangiava cibi conditi col garum, la salsa acida fatta da pesce fermentato, e ci beveva sopra del vino, non si sarà fatto problemi nemmeno di fronte alle lingue di pappagallo, prelibatezza della cucina romana. Tommaso d’Aquino invece era esterofilo, come noi con la passione del sushi. Il Giappone era però troppo lontano, così si limitò a maturare una passione per le aringhe, con cui si faceva colazione in Germania e forse anche in Francia, dove si era recato più volte per studio.

La cena della Vigilia in convento sarà stata morigerata e senza carne, prima del giorno di Natale infatti era ancora tempo di Avvento, quindi di digiuno e penitenza (da qui le nostre anguille o capitoni e altri animali acquatici per il menù della Vigilia). Ma tra questi filosofi, tra Cartesio sovrappensiero – essere o non essere, dubito dunque penso dunque sono, se sono potrei anche pranzare – e Hume intento a scrivere del gusto, quindi non a gustare, tra loro qualcuno si sarà pure sporcato le mani in cucina, forse. Non Kant, certo, dotato di maggiordomo, nemmeno Hegel, famoso e adorato professore. Forse Schopenhauer, per necessità, visto che licenziava tutte le domestiche.Però, rabbioso com’era, avrà avuto antipatia per le feste. Ricordate l’Innominato del Manzoni: «Che cos’hanno tutti da festeggiare?» si chiedeva con ira, al sentire le campane della domenica. Così Arthur Schopenhauer magari si faceva un uovo al tegamino, cercando anche di convincersi di essere l’uomo più sensato al mondo, a evitare i festeggiamenti natalizi. E intanto sbocconcellava una mini-porzione di pandoro (liscio, né uvette né canditi o altre porcherie), di quelle che sono sempre un po’ secche, come se la morbidezza non riuscisse a penetrare la monoporzione.

La stessa mestizia dobbiamo pensarla in casa Heidegger. Anche se vivevano per lunga parte dell’anno in una baita nella Foresta Nera, anche se erano tedeschi quindi esportatori nel mondo di moltissime tradizioni natalizie, il professore era troppo avverso alle religioni per consentire banalità come i festeggiamenti natalizi. Sarebbero bastate due palline sugli abeti intorno, una candela accanto al camino. Ma niente, la povera Elfride doveva rinunciare agli addobbi, alle carte scintillanti, all’aragosta e al salmone. Si capisce bene come si sia vendicata facendo passare per figlio di lei e del marito il piccolo Hermann, nato invece dalla relazione con un amante. Ma, ancora, nessuno di questi filosofi in cucina. Un’idea: Wittgenstein! Ma certo, non solo amava disegnare e costruire in prima persona, ma fu anche colui che disse «è meglio tacere, di ciò di cui non si può parlare». Ed è meglio non dire troppo il grande divertimento che ci dà, ogni anno, il Natale: potersi occupare di pasticci in cucina, shopping, abiti e belletti, senza dover cercare altre scuse.