C’era un bell’editoriale del direttore Mario Calabresi su «Repubblica» lunedì scorso, esaustivo già nel titolo: Genova ferita si cura ricucendo non strappando. Mi convince a tracciare un paragone fra il crollo del ponte di Genova e il fallimento del Casinò di Campione, pur temendo che possa sembrare irriverente. Avevo notato prima una equivalenza fra i due eventi: a Genova 600 cittadini privati della casa; a Campione quasi 600 cittadini privati del lavoro. Poi un parallelismo anche nella ricostruzione: a Genova un ponte che possa tornare a collegare Ponente e Levante, garantendo uno snodo a trasporti, logistica e commerci; a Campione un Casinò che torni a garantire entrate alle casse comunali. Infine, un’altra analogia: i due comuni, di colpo, si ritrovano praticamente a dover vivere come negli anni Cinquanta visto che a Genova il dissesto urbanistico sconvolge tutto il «sistema Liguria» e nella vicina enclave il fallimento della casa da gioco disgrega il «sistema Campione».
Certo, a Genova c’è il lutto: la tragedia è aggravata dai morti. Inoltre un ponte è opera dell’uomo e se cede è fallimento di una ingegneria bolsa, o dell’incuria e di sovraccarichi prolungati, o di una somma di tutto questo. In più il collasso di un ponte autostradale a quattro corsie non riguarda solo una città o una regione, ma estende il danno alle infrastrutture di tutta l’Italia, alla politica che con dichiarazioni e rimpalli su cause, colpe e danni ancora tutti da accertare riesce solo a confermare l’assurdità della situazione, a dimenticare che il livello di precarietà di 45 mila infrastrutture (ponti, viadotti e gallerie) della rete stradale italiana, di cui una decina sono crollate negli ultimi tempi, è segnato da almeno 300 ad alto rischio! Dati drammatici, davanti ai quali il direttore dell’Istituto italiano di tecnologia Roberto Cingolani ha espresso un lapidario giudizio: «Da disorganizzati e vetusti siamo diventati pericolosi».
I numeri di Campione, non dovendo conteggiare vittime, sono meno tragici ma non meno importanti. Parlano soprattutto di danni in campo sociale. Nell’enclave agli oltre 500 disoccupati della casa da gioco si sono aggiunti anche 86 dipendenti dell’amministrazione che il comune ha dovuto mettere in mobilità, affidando i suoi servizi a soli 16 impiegati scelti in base ad anzianità, figli a carico ecc. Da questo quadro, purtroppo liquidato dai media italiani con brevi fototesti e cronache che tradivano disinteresse, sono emerse anche due curiose iniziative: una cordata di imprenditori con miracolistiche proposte (ovviamente solo immobiliari) e una indiretta richiesta di annessione di Campione alla Svizzera. Parlando con i media ticinesi di questa ipotesi secessionista il sindaco Salmoiraghi l’ha subito definita «folcloristica» e ha ricordato che prima bisognerebbe chiedere agli svizzeri cosa ne pensano. Forse anche lui pensava alla necessità di ricucire e di evitare strappi con una Roma già tormentata di suo. Comunque non era una «fake news»: la proposta era giunta da una sindacalista campionese che, visto il disinteresse dei media e dei politici italiani, ha ipotizzato la richiesta di annessione come segno di riconoscenza verso chi invece continua a garantire servizi essenziali alla popolazione e a procrastinare pendenze finanziarie di non poco conto. Negli ultimi decenni Campione ha infatti concluso importanti e vitali accordi (riguardanti formazione, sanità, trasporti, servizi urbani ecc.) con il nostro Cantone e i maggiori comuni confinanti. Solo così ha potuto garantire continuità a una gestione del comune in continua lotta con le sempre più ridotte entrate derivanti dai giochi del Casinò, oltre che con il mantenimento dell’equiparazione alla moneta elvetica per salari, servizi, costi e prestazioni sociali.
Sul tema dell’annessione una visita in Wikipedia basta per scoprire che duecento anni fa erano i cantoni svizzeri a rivendicare l’enclave italiana, con richieste di annessione prima rivolte a Napoleone e poi al Congresso di Vienna. Addirittura alcuni anni prima, quando il nostro Cantone ancora non esisteva, la Confederazione aveva proposto «sic et simpliciter» uno scambio del territorio di Campione con il villaggio di Indemini, ma «la questione non ebbe seguito». Solo nel 1848 i campionesi, allarmati da quanto stava accadendo in Italia (cinque giornate di Milano), fecero richiesta ufficiale di annessione alla Svizzera che il governo elvetico respinse «per opportunità politica al fine di conservare la dichiarata neutralità». Ultimo atto nel 1861: il governo del Regno d’Italia accettò la cessione al Ticino dei terreni campionesi della Costa di S. Martino e della Casaccia che, situati sulla riva opposta del lago, consentivano a Lugano di migliorare la rete stradale con Melide dove era già stato costruito il ponte diga verso Bissone. 150 anni dopo a Campione torna a spirare qualche refolo secessionista, ma, come dice il sindaco, è solo «roba folcloristica». Meglio impegnare le forze a salvare il «sistema», a ricucire.