Nei giorni scorsi su «Il Foglio» mi sono imbattuto in «oclocrazia», termine di cui non conoscevo il significato. Era in un articolo in cui Alessandro Maran rivisitava un famoso discorso di Abramo Lincoln, pronunciato nel 1837 per condannare il linciaggio di un tipografo e la distruzione della sua stamperia e del materiale di propaganda abolizionista della schiavitù. Consultando Wikipedia ho appreso che a parlare di oclocrazia per la prima volta è stato lo storico greco Polibio, vissuto due secoli prima di Cristo, nel suo Le Storie, un trattato che contiene un’ampia disamina della sua teoria ciclica delle forme di governo. Nella traduzione italiana di Carla Schick (edizione Mondadori, pagina 98) si legge questo suo giudizio: «Finché sopravvivono cittadini che hanno conosciuto la tracotanza e la violenza [...], essi stimano più di ogni altra cosa l’uguaglianza di diritti e la libertà di parola; ma quando subentrano al potere dei giovani e la democrazia viene trasmessa ai figli dei figli di questi, non tenendo più in gran conto, a causa dell’abitudine, l’uguaglianza e la libertà di parola, cercano di prevalere sulla maggioranza (…) Desiderosi dunque di preminenza, non potendola ottenere con i propri meriti e le proprie virtù, dilapidano le loro sostanze per accattivarsi la moltitudine, allettandola in tutti i modi». Dunque già duemila anni fa l’oclocrazia era una degenerazione che la democrazia può incontrare quando il potere arriva in mano «ai figli dei figli», cioè quando chi ha conosciuto e lottato contro le dittature, o comunque per salvaguardare le libertà democratiche, dopo due generazioni viene sostituito o destituito.
Scendendo nei dettagli Polibio segnalava poi che l’oclocrazia inizia a manifestarsi quando le masse si illudono di poter esercitare liberamente la propria funzione e cessano di essere un popolo libero, visto che in realtà sono soltanto «strumento animato» di una o più persone che le manovrano, spesso anche distribuendo denaro o favori. Quasi temendo che l’avvertimento non bastasse a chiarire la pericolosità della metamorfosi aggiungeva un’ulteriore puntualizzazione: «Quando sono riusciti, con la loro stolta avidità di potere, a rendere il popolo corrotto e avido di doni, la democrazia viene abolita e si trasforma in violenta demagogia».
L’importanza di questi avvertimenti dello storico greco (che visse un importante momento, come «consigliere politico esterno», anche nell’antica Roma) e la pericolosità della oclocrazia sono state riproposte di recente in diversi articoli per sostenere confronti e paragoni con situazioni e vicende legate ai vari populismi spuntati in questo avvio di secolo in Occidente. Anche l’articolo de «Il Foglio» seguiva questa via: basato sull’analisi di due studiosi americani del discorso di Lincoln giovane, Maran metteva in evidenza che, proprio come la folla può arrivare a compiere un linciaggio, anche l’oclocrazia (il futuro presidente americano usò il termine «mobocracy», traducendo il prefisso «oclo» con il peggiorativo «mob», cioè «governo della plebe») è in grado di distruggere «la religione politica della nazione», quindi di minare l’ordine democratico. Partendo da questo assunto nel suo articolo Maran si premurava di evidenziare come, per non cadere nell’oclocrazia, il rispetto delle leggi debba sempre prevalere sugli assalti allo stato di diritto e sovrastare i vari «in nome del popolo», «in nome della giustizia», «in nome della verità» che sempre più frequentemente infiammano il dibattito e le cronache politiche italiane, soprattutto attraverso stampa e nuovi mezzi di comunicazione.
Ma non intendo entrare nel guazzabuglio del Bel Paese, tanto più che «Azione» ha tutta una serie di validissimi collaboratori in grado di analizzare e commentare questo delicato momento della vicina Repubblica. Mi preme di più accennare a come la straordinaria lezione di Polibio possa essere applicata anche per stigmatizzare e curare le negative influenze dei nuovi mezzi di comunicazione. L’idea mi è balenata ricordando un articolo dell’«Economist» di alcuni anni fa che già nel titolo si chiedeva: «I social media tradiscono la democrazia?». L’autore spiegava come Facebook, Google e Twitter, cioè le «nuove tecnologie», oltre ad essere veicolo del pensiero e della comunicazione, siano ormai diventate anche il conducente. Questo perché Internet e i nuovi mezzi di comunicazione sociali, nonostante siano stati creati per aiutare convivenza e trasparenza, negli anni hanno perso i loro ideali legati alla libertà. E da quando possono essere a disposizione di gruppi che «non tengono più in gran conto l’uguaglianza e la libertà di parola» sono diventati un pericolo per la nostra privacy e per il nostro ordinamento democratico. Di conseguenza, una società che tollera distratta e passiva l’incessante attività di «tribunali del popolo» perlopiù legati al web, non sta forse favorendo un «populismo informatico» pericoloso, un’oclocrazia digitale? Gli avvertimenti di Polibio sono utili non solo contro chi attenta alla democrazia, ma anche e soprattutto (lo insegna l’attualità) contro chi abusa dei mezzi di informazione.