Elogio (breve) dell’antropologia

/ 19.06.2017
di Cesare Poppi

Ieri pomeriggio, mentre rientrava in sede coi mezzi delle Ferrovie dello Stato Italiane, il vostro altropologo preferito ha dovuto misurarsi con la domanda più temuta dagli antropologi di sempre: «Dunque, allora, mi spieghi, caro professore: che cos’è questa antropologia!?». Lo scenario: vagone sovraffolato della linea Bologna-Venezia Santa Lucia, temperature attorno ai ventotto-ventinove gradi (il condizionatore è fuori combattimento) – ritardo del treno attorno alle stesse cifre (in minuti, però) e la destinazione finale – quando ovvero si potrà evacuare il forno – che appare lontana come Timbuctù. A sparare la domanda, senza preavviso, un signore sulla settantina, occhiali spessi, sovravestito con giubbotto di tessuto impermeabile, bastone e fare inquisitorio. Una di quelle persone che uno dovrebbe evitare in primo luogo e – soprattutto – non dovrebbe scegliersi come dirimpettaio in un viaggio infernale. Mi scuoto dal torpore, che stavo per addormentarmi: «Mi scusi…mi scusi… domandava?». Si ripete, secco: «Volevo solo che mi spiegasse cos’è l’antropologia». Mi viene un colpo: «Ma come avrà fatto…» – a poi mi accorgo di avere in mano quel bel libro di Louis-Vincent Thomas «Antropologia della Morte». Panico. Domanda – appunto – mortale: «Così la prossima volta in treno ti porti Topolino». La prima risposta che mi viene in mente è: «Le sembrano domande da fare in questi frangenti!?» – e chiuderla lì. Poi l’istinto missionario che alberga in tutti gli accademici (che poi altro non è che una segreta ed inconfessabile pillolona di orgoglio perché finalmente qualcuno si interessa alla tua oscura ed inutile disciplina) prende il sopravvento. Dunque salto a cavallo, sguaino la sciabola e parto alla carica: «Caro il mio signore, l’Antropologia è quella disciplina (bello il termine: è come dire che uno veste un eroico cilicio) che studia la Cultura». Quello insiste e ci casca: «E la Cultura che cos’è, per grazia?». «La Cultura è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, le arti, la morale, la legge, le usanze – e ogni altra capacità e abitudine acquisita da un essere umano come membro della società» – e sto per aggiungere «inclusi i maledetti treni e i loro dannati ritardi» ma mi sembra di esagerare e lo grazio. Touchè: il mio tormentatore mi guarda stupito e, con un filo di voce mi fa: «Però…».

Ha funzionato come sempre: la definizione di Antropologia che Sir Edward Burnett Tylor elaborò nel 1871 nel volume «Primitive Culture» come studio della Cultura è come la Dottrina della Trinità per un Teologo. Funziona sempre, dall’antipasto all’ammazzacaffè, perché ora che uno è arrivato a dipanare la pressochè incomprensibile matassa è talmente esausto che torna a leggere Topolino. Eppure lo stesso Tylor peccava di omissione grave, come spiego sempre ai miei studenti che una volta digerita la definizione alla meno peggio tirano il fiato perché credono che sia finita lì: dal quadro, per complesso che sia, manca la voce «economia» come attività fondamentale del vivere in società che presenta variazioni notevolissime da formazione culturale a formazione culturale nel tempo e nello spazio. Bene disse a questo proposito e a suo modo l’ormai mitico Presidente dell’Eurogruppo del quale si omette il nome per carità cristiana quando denunciò la diversa destinazione dei sussidi europei a Nord ed a Sud delle Alpi causa la diversa maniera delle rispettive culture nei confronti delle attività ludiche e ricreative – mettiamola così sempre per la succitata virtù.

Il problema è che ai tempi di Tylor il Capitalismo industriale, fresco di vittorie liberali sui conservatori, marciava a tutta forza a livello globale, giovane, baldo e incontrastato. Appariva allora che le Leggi Ferree dell’economia avessero una cogenza tale da non poter far parte di quel paniere un po’ caotico dove ci stava dentro tutto quanto poteva variare – e dunque essere in quanto tale relativo – da cultura a cultura. L’Economia no: quella rispondeva solo a se stessa ed era pertanto assolta ed assoluta. «Pecunia non olet» – un corno, dicono gli antropologi. Olet anche quello eccome: ricordo il Carnevale della città di Naoussa, nella Macedonia greca di due anni fa in piena crisi finanziaria, mentre il mondo piangeva le misere sorti della Grecia, culla della civiltà divenuta bidone della spazzatura delle obbligazioni fasulle di mezzo mondo. Bene: la città intera era in baracca come mai non ho visto al mondo. Vino e rakia a fiumi, salsicce che sembravano siluri, musica e danze dappertutto – baci, abbracci ed allegria da vendere. Ad un certo punto entra in piazza un personaggio con un enorme cartello recante la foto del ministro delle finanze del Paese Dominante (la peggiore, quella col ghigno feroce, avete presente?). La piazza esplode: grida di scherno, insulti, cachinni, lazzi – poi parte il lancio di salsicce, patatine, sbicchierate di vino e rakia. Il Popolo che ha inventato la democrazia celebra antropologicamente la sua economia «stile ellenico».

Con buona pace di Herr Dijsselbloem, di Herr Schäuble e di Sir Edward Burnett Tylor. E anche del mio anonimo compagno di viaggio, finalmente in pace ed immerso a leggere il suo Topolino.