Élite e potere: il caso Escher

/ 18.02.2019
di Orazio Martinetti


All’estero, ma soprattutto in Italia, spesso ci chiedono, non senza manifestare stupore, come mai AlpTransit non abbia incontrato resistenze, e abbia anzi beneficiato di un largo consenso, più volte confermato dalle urne. Una traiettoria, insomma, per nulla paragonabile – nelle premesse e nelle fasi della sua realizzazione – a quella che da decenni sta tormentando e lacerando la val di Susa con l’alta velocità (Tav), senza tangibili progressi. Le risposte sono più di una. C’era, innanzitutto, l’esigenza di sgravare la linea ottocentesca di un carico non più sopportabile; in secondo luogo, la necessità di trasferire progressivamente le merci dalla strada alla rotaia. Sul piano più generale, la galleria di base avrebbe accelerato l’integrazione del Ticino nello spazio transalpino, un’area dinamica non soltanto nel secondario (industrie) e terziario (finanza), ma anche nella formazione (università e politecnico). Da questa stessa area ci si attendeva una ripresa dei flussi turistici verso sud, da tempo languenti.

Questo era il lato pratico-concreto, comprendente sia l’economia che l’ecologia. C’era però un ostacolo che occorreva rimuovere, ovvero l’opposizione dei cantoni romandi, preoccupati che il San Gottardo rimandasse il Lötschberg. Di qui la soluzione di costruire entrambi i trafori, in base ai collaudati schemi del compromesso elvetico. Non furono dunque pur raffinate analisi costi-benefici a determinare le scelte sopra esposte. Anzi, probabilmente il fattore materiale non fu nemmeno il fattore determinante. La trasversale alpina rientrava nelle rivendicazioni che la minoranza ticinese sottoponeva regolarmente alle autorità federali, ricevendo risposte non sempre nette e convincenti. Ma nel contempo era cresciuta nel paese l’apprensione per le sorti dell’ambiente, i timori per l’inquinamento e per i guasti provocati dalle piogge acide. La ferrovia poteva contare su un capitale di simpatia che non aveva eguali nel campo dei trasporti.

A tutto questo si aggiungeva la funzione nazional-patriottica che la strada ferrata aveva esercitato fin dagli albori. Lo storico dell’economia William E. Rappard, esaminando gli effetti della Costituzione del 1848, la poneva al centro del processo di edificazione nazionale accanto alla rete viaria, motore e collante della coesione nazionale: «È appunto al progresso della tecnica nei trasporti, cioè essenzialmente alla strada e alla ferrovia, che il popolo svizzero deve in primo luogo il senso crescente della sua unità nazionale. È pensabile che il popolo svizzero avrebbe cercato e realizzato un’unità nazionale, se nel XIX e nel XX secolo la distanza da Ginevra a Coira e da Basilea a Lugano, calcolata in ore e in spese di viaggio, fosse ancora stata quella dei cinque secoli precedenti?».

Questa consapevolezza di dover lavorare per avvicinare i cantoni dopo la guerra del Sonderbund (quelli progrediti a quelli arretrati, quelli di pianura a quelli di montagna, quelli protestanti a quelli cattolici) fu ben presente nella mente dell’élite liberale del XIX secolo, la cui figura di prua fu indubbiamente Alfred Escher, il «barone» di Zurigo, di cui la città festeggia il bicentenario della nascita (20 febbraio 1819). Il disegno di questo influente esponente della borghesia zurighese era lineare e ambizioso: collocare l’iniziativa ferroviaria in un ecosistema imprenditoriale più vasto, che comprendesse sia la formazione accademica (tecnici, architetti, ingegneri, geologi), sia il flusso del credito.

Sorsero così, come tessere di un mosaico, il Politecnico federale, il Credito svizzero e la compagnia di assicurazioni Rentenanstalt: una tela di ragno che Escher guidava e controllava con mano ferma, forte dei mille agganci che come politico iperattivo in vari consessi, cantonali e federali, aveva saputo coltivare sia nell’operosa Zurigo, sia nell’amministrativa Berna. Escher, com’è noto, fu uno dei fautori della ferrovia del Gottardo, opera grandiosa che però fu anche all’origine delle sue disgrazie come capitano d’industria e come finanziere. Scorrendo la sua biografia si rimane colpiti dalla sua energia come pure dalla sua lungimiranza. Ma balza all’occhio anche un altro aspetto, frequente nelle élites del tempo: l’insensibilità per la questione sociale, per i minatori e i manovali che nelle buie caverne scavate sotto le Alpi morivano come mosche.