Elementare, Watson

/ 17.06.2019
di Bruno Gambarotta

A memoria ricordo tre romanzi italiani con una religiosa nel titolo. La suora giovane di Giovanni Arpino del 1959; Lettere di una novizia di Guido Piovene del 1941; Storia di una capinera di Giovanni Verga del 1871. Se ne aggiunge ora un quarto, La strategia della clarissa di Cristiano Governa. Questa suor Paola non ha nulla in comune con le tre consorelle che l’hanno preceduta negli scaffali. Lei ha un fratello, Carlo Vento, commissario di polizia a Bologna, e lo aiuta nelle indagini.

Detto così sembra un mero espediente narrativo per introdurre un elemento di novità nel sempre più affollato panorama del giallo italiano. Ma, avendo avuto l’opportunità di leggere il libro in bozze, vi assicuro che non è così. Questa suor Paola, quarantenne, macina pensieri forti, usa parolacce altrettanto forti, è sorella di Carlo, quasi cinquantenne commissario e ogni tanto esce di nascosto dal convento per andare a cena da lui, ritornato single, nella sua casa di Bologna. E per seguirlo, in una torrida estate, sulla riviera romagnola, per indagare sulla scomparsa di Martina, ragazza quindicenne.

Suor Paola, grazie alla sua visione laterale del mondo, offre un apporto prezioso alla comprensione degli avvenimenti, non tanto sul piano razionale, tipico della collaudata tradizione investigativa, quanto di respiro metafisico. Usa il suo costante controcanto su un grande tema, l’osmosi fra la vita e la sua rappresentazione: «a furia di capirle le uccidi le cose».

Questa clarissa, ultima arrivata sulla scena, mi serve come pretesto per allargare il discorso alla letteratura poliziesca, in particolare al filone della detective story. Uno dei capisaldi del genere è rappresentato da sir Arthur Conan Doyle il quale con Uno studio in rosso dà inizio alle investigazioni di Sherlock Holmes e del dottor Watson. Dimostrando, con il suo successo planetario che l’investigatore ha bisogno di avere al suo fianco una «spalla», per dirla in gergo teatrale. La spalla avrà nel tempo molte funzioni e sovente, essendo di levatura intellettuale inferiore a quella del suo capo, avrà necessità di ricevere spiegazioni dal boss che, dandole a lui, in realtà le fornisce al lettore.

Nel corso di un secolo e mezzo, partendo dal dottor Watson, siamo arrivati alla suora di clausura. E non finirà qui nella gara a mettere insieme coppie sempre più strane. Una richiesta sale dalla folta e agguerrita falange degli scrittori di gialli investigativi: trovare una «spalla» al loro investigatore che sia al contempo inedita e credibile. Regalo l’idea a chi la vuole raccogliere: dare il via a un ufficio di collocamento, chiamiamolo «start up» per essere aggiornati, per selezionare e segnalare candidati al ruolo. Prima o poi qualche assessore inventerà il premio «Dottor Watson».

La narrativa poliziesca vive all’interno di un vistoso paradosso, dovendo seguire due precetti antitetici. Da un lato, per essere credibile, deve essere attentissima ai dettagli, anche ai più insignificanti: topografie delle città dove sono ambientate le storie, marche e modelli di automobili e motociclette, vestiti, accessori, programmi televisivi, orari, mode, consumi alimentari. Un lettore del mio Torino, lungodora Napoli mi fece osservare che nel corso Agnelli di Torino avevo fatto passare il tram numero 12 mentre in realtà passava la linea 10. A mia volta ho contestato duramente un giallista che aveva fatto atterrare un aereo a Fiumicino due anni prima che l’aeroporto fosse inaugurato.

Per contro, allo scopo di tenere l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina, il romanzo poliziesco deve disporre di un’indagine sviluppata in un ampio arco di tempo con radici in un lontano passato e soprattutto di criminali colti, intelligenti e astuti, in grado di tenere in scacco a lungo gli investigatori. In pratica deve celare sotto l’abito spietato e sanguinario la sua natura di favola. La realtà è ben diversa, nella vita vera i criminali sono capaci nello stesso tempo di elaborare strategie complesse e di commettere errori grossolani, dovuti a una forma puerile di vanagloria.

Nel 1972 il ministero degli Affari Interni propose alla Rai la realizzazione di una serie di telefilm che, ricostruendo in forma di fiction casi veri, mettessero in luce l’efficienza e l’umanità della polizia italiana. Nacquero così due serie di sei episodi l’una, Qui squadra mobile, con la regia di Anton Giulio Majano, in onda in prima serata su Rai 1. Nel mio ruolo di produttore, ho potuto, con gli autori della sceneggiatura, consultare i fascicoli dei casi risolti dalla squadra mobile di Roma.

Che delusione! Gli autori della rapina a un furgone portavalori, preparata con mesi di appostamenti, per fuggire avevano usato una Porsche Carrera, posseduta a Roma da 12 titolari in tutto. Era bastata mezza giornata di controlli per trovare il bandolo della matassa. Seguite il mio consiglio: ai criminali veri preferite quelli finti, danno molta più soddisfazione.