Una trentina di anni fa si era diffusa, tra i politologi, l’abitudine di commentare gli effetti perversi di misure e programmi politici. Questi effetti sono quelli di cui non si tiene mai conto quando, negli organi esecutivo e legislativo, si decide sugli stessi. Purtroppo non è raro il caso che gli effetti perversi delle nuove politiche siano superiori a quelli positivi che si volevano raggiungere con le stesse. A me sembra che, da questo profilo, la liberalizzazione nel settore energetico sia un caso da manuale.
Facciamo un passo indietro. Quando, nel 2007, il parlamento federale approvò la nuova legge sull’approvvigionamento elettrico, che prevedeva una liberalizzazione del mercato in due fasi, politici e commentatori dei fatti politici si affrettarono a mettere in evidenza i grandi benefici che avrebbe apportato: libertà di scegliere l’azienda e il tipo di energia, diminuzione dei prezzi per i consumatori. Nessuno si preoccupò allora di mettere in evidenza che la diminuzione dei prezzi sarebbe stata la diretta conseguenza dell’aumento della concorrenza sul mercato e che, eventualmente, le aziende di produzione svizzere avrebbero avuto più difficoltà a contrastare la concorrenza delle aziende dei paesi confinanti, in particolare di quelle tedesche.
Che qualcosa non girava lo si realizzò però subito dopo, durante la prima fase di applicazione delle nuove norme, quella tra il 2009 e il 2013. Furono le grosse perdite dell’Alpiq a far tirare il segnale di allarme a commentatori e a politici: una delle maggiori aziende private di produzione e distribuzione di energia del paese si trovò d’improvviso a dover far capo a perdite di esercizio dell’ordine delle centinaia di milioni di franchi. Si citarono allora molti fattori, in particolare in relazione con la politica dell’azienda che aveva cercato di affrontare la liberalizzazione acquistando altre aziende per aumentare la sua quota di mercato. La verità, venuta a galla un paio di anni dopo, era però che l’azienda in questione, con i prezzi venutisi a determinare sul mercato dell’energia elettrica con la liberalizzazione, non era più concorrenziale. Qualcuno pensò dapprima che quello dell’Alpiq fosse un caso unico e che le aziende statali e parastatali di produzione dell’energia elettrica, invece, continuavano ad essere al riparo dalla concorrenza.
Purtroppo non è così. Ce lo ha insegnato, nel corso degli ultimi due anni, il caso dell’Axpo, il gruppo energetico dei Cantoni della Svizzera nord-occidentale noto per il ruolo di pioniere che aveva svolto nella costruzione di grandi bacini idroelettrici e nella realizzazione delle prime centrali nucleari. Anche l’Axpo è nelle cifre rosse. Nell’ultimo esercizio ha perso qualcosa come 1,25 miliardi di franchi. Le altre aziende statali e parastatali non è che stiano molto meglio. Per più ragioni, che sarebbe troppo lungo dover elencare, l’energia elettrica prodotta in Svizzera è, per il mercato liberalizzato, troppo cara. Allora, cosa fare? Le aziende svizzere hanno sviluppato la loro strategia di lotta contro la concorrenza nel corso degli ultimi cinque anni, gradino dopo gradino. Dapprima si è cercato di tagliare i costi. In seconda battuta si sono messe in vendita le parti di azienda meno redditizie, in particolare quelle legate agli investimenti che le aziende elettriche svizzere avevano effettuato all’estero per rafforzare la loro posizione.
Poi si è arrivati alla terza fase, a proporre la vendita degli impianti idroelettrici situati in Svizzera. Purtroppo senza grande successo, perché questi impianti non hanno trovato compratori disposti ad investirvi. Oggi siamo alla quarta fase che prevede l’adozione di una strategia molto simile a quella che avevano adottato molte banche dopo la crisi del 2008. L’azienda viene suddivisa in due: le parti che rendono – come , per esempio, la produzione di energia da fonti rinnovabili – vengono accorpate in una nuova azienda che si pensa possa continuare a svilupparsi in modo positivo. Quelle che non rendono, invece, restano nella vecchia azienda in attesa, probabilmente, di trovare investitori che siano interessati a rilevarle. Per il momento, tuttavia, questi investitori mancano. Ragione per cui non mancano i suggerimenti di commentatori e politici che vedrebbero volentieri che la produzione di energia idroelettrica fosse statalizzata, secondo la formula usuale del «privatizzare i benefici e statalizzare le perdite». Come alternativa si suggerisce che lo Stato sussidi la produzione di energia idroelettrica per renderla maggiormente concorrenziale. Vedremo!
Per il Ticino la situazione è abbastanza chiara, in quanto la produzione di energia elettrica è già statalizzata. Fino a qualche fanno fa, la statalizzazione ha portato milioni nelle casse degli enti pubblici. In futuro, purtroppo, saranno invece i contribuenti che dovranno assicurare il pareggio dei conti dell’Azienda Elettrica Ticinese. Ah, se avessimo una Banca nazionale dell’energia alla quale rifilare le perdite!