Dylan e un Nobel difficile

/ 26.06.2017
di Luciana Caglio

Il 4 giugno scorso, il caso Dylan poteva sembrare concluso, almeno giornalisticamente parlando. La data segnava il termine entro il quale il cantautore era tenuto a presentare il testo del suo discorso, la cosiddetta «lectio», che l’Accademia svedese esige dai premiati. Dopo sette mesi di latitanza, Bob Dylan l’aveva rispettato, sia pure a modo suo. Diversamente dai suoi colleghi, il Nobel della letteratura 2016 si era rifiutato di leggerlo di persona, durante la cerimonia ufficiale, preferendo affidare il messaggio a YouTube e contando, così, su una diffusione più popolare, ma anche rischiosa. Come i fatti dovevano, poi, dimostrare. In quell’audio di 27 minuti, l’autore, per spiegare il rapporto fra canzone e letteratura, vissuto da assiduo lettore di classici, ricorre a citazioni, in particolare dal «Moby Dick» di Melville: che si rivelano sbagliate. Non appartengono al testo originale bensì a un bigino, destinato agli studenti scansafatiche. Insomma, una figuraccia che doveva ridare al cantautore gli onori, si fa per dire, della cronaca, dove, adesso, ricompare da accusato di plagio.

Del resto, la pubblicità, anche negativa, non dispiace al personaggio che, insignito, l’ottobre scorso, dell’ambitissimo titolo, ha fatto di tutto per meritare un’attenzione mediatica mondiale, improntata all’ironia. In bilico fra il ruolo di menestrello e di premio Nobel, cioè fra ribellione ed «establishement». anche il mitico Bob ha finito per scegliere il compromesso. E se, com’è risaputo, non aveva presenziato alle premiazioni di Stoccolma e Oslo, una capatina, in Svezia, l’aveva fatta, in forma privatissima: per ricevere la medaglia e l’attestato che vale 800 mila euro. Insomma, un tira e molla che, in parole povere, si potrebbe definire maleducazione, e che, tuttavia, non basta per liquidare il Dylan artista, promosso ad autore degno di passare ai posteri.

Più che mai questa volta, la decisione dei giudici di Stoccolma doveva provocare reazioni di sconcerto, persino di scandalo. Ma come, a Philip Roth, a Joyce Carol Oates, e quanti altri ancora, si preferisce un menestrello che si esprime con armonica e chitarra? Insomma si offende la letteratura. Un atto d’accusa cui si contrappone una difesa. Con Dylan, si allargano, giustamente, i confini di un genere. Non si tratta di confusione, piuttosto di un necessario riallineamento sulla scala dei valori? Sono interrogativi non nuovi. Anzi, ripropongono, in fotocopia, le reazioni che, nel 1997, avevano accompagnato l’attribuzione del Nobel a Dario Fo, ammirato come attore e da scoprire nell’insolita veste di scrittore.

Ma, al di là di queste dispute, rimane aperta una questione di fondo che concerne una sorta di tabù: l’intoccabilità, l’attendibilità, persino la ragion d’essere, di un premio al quale non spetta più il consenso generale. E non soltanto perché tira un vento contrario alle istituzioni, ma perché, nell’era globale, diventa umanamente impossibile decretare quale sia l’autore più significativo, in grado di figurare nella categoria degli immortali. Un tempo, la competizione era limitata all’Europa e, adesso, accoglie scrittori dei cinque continenti: un guazzabuglio di lingue, di stili, di concezioni culturali. C’è di che perdersi.

Lo sostiene Enrico Tiozzo, nel saggio Il Nobel svelato (Aragno editore) e con conoscenza di causa. L’autore, per 40 anni docente di letteratura italiana all’università di Göteborg, ha avuto modo di esplorare, frugando negli archivi, i retroscena, anche politici, che circondano l’attribuzione di un riconoscimento delicato. Ed è una difficoltà che si affaccia, sin dagli esordi quando, nel 1901, il premio andò a Sully Prudhomme, di cui si dirà maliziosamente, che il suo unico merito era l’appartenenza all’Académie française, mentre erano in lizza Zola, Rostand, Mistral. Seguirono, poi, altre esclusioni assurde: Tolstoi, Proust, Kafka, D’Annunzio, Mark Twain e via enumerando clamorosi incidenti di percorso. Del resto, chiediamoci con sincerità: quali sono gli ultimi Nobel che abbiamo letto? E chi erano? Forse ha ragione il critico della «New York Review of Books», quando denunciò «la stupidità del premio» e «l’idiozia di prenderlo sul serio».

E del resto lo stesso Dylan nel suo discorso di accettazione del premio è sembrato dar ragione agli scettici: «Le canzoni non sono come la letteratura: sono fatte per essere cantate, non lette» ha detto.