Due immagini che parlano da sole

/ 28.10.2019
di Paola Peduzzi

Ci sono due immagini, tra le tante e strazianti che arrivano dal nord della Siria, che raccontano quel che sta avvenendo in questi giorni in quel pezzo di terra che dal 2011 a oggi ha conosciuto ogni genere di tragedia: la brutalità dello Stato islamico, le bombe del regime siriano e della Russia, la fuga. La prima immagine è quella di un soldato americano su un carro armato, mentre sta lasciando le postazioni presidiate finora dalle forze statunitensi: sul braccio ha il simbolo dell’esercito curdo, divisione femminile, quella delle combattenti coraggiose e fiere che hanno cacciato via lo Stato islamico dalla Siria. Gli americani hanno dovuto lasciare le basi in fretta, dopo che il presidente Trump ha dato alla Turchia il via libera a un’invasione che si chiama «Risorsa di pace» e che ha portato la guerra contro i curdi, i nemici del regime turco.

I curdi, che sono stati i boots on the ground della lotta allo Stato islamico per tutto l’occidente che di soldati ne vuole mandare pochi e lo fa comunque controvoglia, hanno tirato pietre ai mezzi americani: dicono che questo tradimento difficilmente sarà perdonato, di certo non potrà essere dimenticato. Ma i soldati americani, che hanno seguito gli ordini (negli ordini erano previsti anche bombardamenti sulle proprie postazioni, per non lasciare alcuna arma a disposizione di chi arriverà), hanno voluto dare il loro saluto ai curdi, con cui hanno lavorato per anni: il simbolo curdo sulla divisa americana significava proprio questo, siamo con voi anche se ci hanno detto di abbandonarvi.

La seconda immagine è quella di Bashar al-Assad, presidente siriano, nella provincia di Idlib, martedì scorso, rifugio per decine di migliaia di militanti e civili che hanno abbandonato le loro case in altre zone della Siria occidentale, liberate dal governo e dai suoi alleati. Circondato da generali e soldati, Assad è andato nella cittadina di Hobeit, che è stata riconquistata dal regime – con l’aiuto della Russia e dell’Iran – a fine agosto. Da allora in questa zona della regione di Idlib è in vigore un (fragile) cessate il fuoco, dopo che per sei mesi le forze siriane, con i soliti alleati (da solo l’esercito siriano non potrebbe riconquistare nulla), hanno bombardato senza sosta questa regione per riportarla sotto il controllo di Damasco. A Hobeit, Assad ha detto che il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, è un «ladro», che sta occupando terre che non sono sue: il rais voleva farsi notare da Erdogan e ancor più dal presidente russo, Vladimir Putin, che si sono accordati su un piano di spartizione della Siria senza di lui. Ma il ritorno di Assad a Idlib, quella foto con lui che guarda mappe e piani assieme ai suoi soldati, racconta molto di più di una partita geopolitica precipitata a causa di una decisione sciagurata dell’America.

La guerra in Siria è iniziata nel 2011, secondo i dati del 2018 5,7 milioni di siriani sono scappati dal loro Paese; 6,1 milioni vivono ancora in Siria ma non nelle loro case: sono sfollati nel loro stesso Paese (che conta 18 milioni di abitanti). La cifra dei morti è ferma al dato del 2015: 400 mila, secondo le Nazioni Unite. Poi il conteggio ufficiale si è interrotto, e questo non è un dettaglio: il senso delle guerre e della loro gravità spesso viene sintetizzato dal numero delle vittime. È un dato non completo ovviamente, ma è rilevante, ancor più se, come in questo caso, il dittatore decide di usare armi brutali contro i propri stessi cittadini (per non parlare di quel che avviene nelle carceri: un report di questa settimana individua 72 metodi di torture utilizzati dai carcerieri siriani contro prigionieri siriani, e risparmio ulteriori dettagli). Tra queste armi ci sono anche quelle chimiche, che costituivano una linea rossa invalicabile che pure è stata superata senza che ci fosse una reazione proporzionata. Ma alla Siria non è dato nemmeno il conteggio aggiornato dei suoi morti, forse perché così ci possiamo illudere che il regime ne abbia ammazzati di meno.

Il presidente Trump ha definito il rais siriano «animal Assad» in uno di quei suoi moti emotivi che sono diventati la cifra della politica estera americana, ma dopo aver bombardato una pista d’atterraggio vuota non ha fatto nulla a livello diplomatico per contenere Assad e i suoi alleati. Anzi, nell’ultima, tragica giravolta ha restituito loro la Siria, piegata da quasi nove anni di guerra, spartita secondo aree di influenza che hanno tutto a che fare con i paesi stranieri e nulla con il futuro del popolo siriano.

Due immagini, e una storia straziante: l’«animal» ora può andare in zone fino a poche settimane fa inaccessibili; nessun altro si sente più al sicuro, né chi combatte né chi scappa.