Il risveglio dei nazionalismi ha riportato sui pennoni le bandiere con i loro emblemi. Patrie grandi o piccole hanno riesumato vessilli ed insegne del loro passato, a ricordo di antiche gesta, pagine gloriose, battaglie vinte, oppure per segnalare semplicemente la loro presenza come minoranza (etnica, linguistica, religiosa) oppressa dalla potenza di turno. Spettacoli seguiti da milioni di telespettatori come i campionati mondiali e come le Olimpiadi offrono un palcoscenico ideale per illustrare alle platee le proprie ragioni. Molti lettori ricorderanno il pugno guantato levato al cielo da Tommie Smith e John Carlos durante la premiazione ai giochi olimpici a Città del Messico nel 1968. Gli Stati Uniti erano allora ancora immersi nel «problema negro» e lacerati dalle politiche che il governo metteva in campo, fatte di discriminazioni, segregazioni, violenze d’ogni genere. Da quella manifestazione plateale sono trascorsi cinquant’anni, ma sotto la cenere il fuoco è rimasto. Basta una provocazione per ravvivarlo.
Il nazionalismo non è un sentimento innocuo. Di solito si presenta carico di una panoplia simbolica bellicosa, destinata a intimorire l’avversario, a negargli dignità e legittimità. Lo stato d’animo che lo alimenta è rapace come la figura che reca sugli stemmi e gli stendardi.
L’intreccio tra sport e politica, tra agonismo e pratiche di governo, è facilmente documentabile, soprattutto a partire dall’Ottocento, il secolo della nascita degli Stati-nazione. Lingua, letteratura, culto della storia non erano sufficienti per insufflare nell’animo dei ceti popolari il sentimento di appartenenza ad una patria comune: occorreva offrire occasioni e celebrazioni che permettessero un’immediata identificazione con la «terra dei padri». Il calcio rientrava pienamente in questa strategia, un gioco semplice, spettacolare, accessibile a tutti. Anche i giri ciclistici nazionali assolsero questo compito (il primo Tour de France prese avvio nel 1903, il Giro d’Italia nel 1909).
Ma la politica consegnava allo sport anche un’altra arma: le bandiere, gli inni, i riti scaramantici, un corredo di archetipi in qualche modo già presenti nell’inconscio collettivo e che si trattava solo di ridestare. Sulle gradinate degli spalti comparvero striscioni cari all’iconografia degli imperi fin dall’epoca romana. Non per caso l’aquila che cadenzava il passo delle legioni era «imperiale», segno di dominio sulle popolazioni sottomesse. Uccello superbo, dal volo maestoso guidato da occhi penetranti, l’aquila univa aggressività e intelligenza, forza e astuzia. Dinastie e regni la collocarono sui loro stemmi, in forma monocefala o bicefala. Quest’ultima figura (a due teste) mirava a rappresentare un potere doppio: mondano e spirituale, quindi totale e incondizionato, come doveva essere il potere dell’imperatore. All’aquila fecero ricorso gli Asburgo, lo zar di tutte le Russie, gli Stati Uniti d’America, l’impero germanico. E stati più piccoli, come la Serbia e l’Albania.
Orbene, che l’aquila tornasse a scendere in campo come motivo di contesa politica, com’è accaduto durante la partita Svizzera-Serbia, ha rappresentato agli occhi di molti una sorpresa. Negli ultimi anni il calcio, come d’altronde altre discipline sportive, si è internazionalizzato attraverso girandole di acquisizioni-cessioni, tanto da relegare l’attaccamento alla bandiera in secondo piano. Si riteneva anzi che il calcio avesse in qualche modo anticipato il cammino della società multietnica in cui sempre più viviamo, una sorta di crogiolo di stirpi, di culture, di fedi destinate a convivere senza farsi la guerra. Compagini nazionali come la Svizzera (o come la Germania), attraverso la folta presenza di giocatori figli d’immigrati, prefiguravano questo destino «multikulti», aperto e tollerante.
Poteva funzionare? Gli scettici fecero notare che i colori ancora contavano e che affidare le sorti di una squadra ad un manipolo di mercenari non era corretto; i contrari scrissero che nella nazionale militavano «troppi neri» (e ora «troppi balcanici»). Di sicuro c’è che dopo la crisi del 2008 il vento è cambiato. Per milioni di lavoratori il processo di globalizzazione si è tradotto in delocalizzazione delle imprese, disoccupazione, precarietà ed erosione di diritti faticosamente conquistati. Le migrazioni e la moltiplicazione dei ghetti urbani hanno decretato la morte del progetto multiculturale. Nel contempo sono riaffiorate antiche rivendicazioni legate a tradizioni, vicende, identità a lungo conculcate, come appunto nell’area dei Balcani, definita un tempo «polveriera».
Sull’onda della rinascita dei nazionalismi anche l’aquila ha ripreso a volare. Ma il ritorno di questo volatile non è preannuncio di pace: si tratta pur sempre di un predatore, e come tale non promette nulla di buono, almeno in politica.