Dove ci porterà la memoria

/ 26.03.2018
di Ovidio Biffi

Nei primi mesi dell’anno ho ricevuto per posta da organizzazioni con finalità assistenziali o umanitarie lettere con i resoconti da unire alla dichiarazione per il fisco. Una era dell’associazione che, a livello nazionale, si propone di aiutare la ricerca medica per l’Alzheimer. Ringraziava per l’aiuto ricevuto e ripresentava la mano tesa con questo messaggio: «Presumiamo che attualmente circa 144.000 persone in Svizzera siano affette da una forma di demenza, ma che solo a meno della metà di loro sia stata effettivamente diagnosticata la malattia. Un malato di Alzheimer vive in media 8-10 anni; a tutt’oggi non esistono terapie che possano guarire la malattia o arrestarne l’avanzamento. In media, il 60 per cento dei malati vivono a casa con enormi difficoltà finanziarie, sociali e psicologiche per i familiari che se ne prendono cura». E terminava con questa tremenda aggiunta: «In futuro il numero dei malati di Alzheimer salirà da 144.000 nel 2016 a 300.000 nel 2040».

L’iniziale mano tesa è diventata di colpo una mano alzata, di quelle che ti impongono di fermarti a riflettere. Lo sbigottimento, sprigionato da quei numeri nella mente, mi ha suggerito di correre ai ripari. Così, come mi capita in questi casi, sono andato a cercare La forza del carattere di James Hillman, un libro che bisognerebbe regalare a tutti coloro che arrivano alla pensione, magari aiutandoli anche a «camminare» con Hillman, cioè a capire e a cercare il lato seducente dell’ampio giro che lo psicologo americano compie circumnavigando l’arcipelago della vecchiaia. Tra le sue pagine, ricche di citazioni e di esempi, spesso trovo la nota giusta per intonare la giornata, talvolta coinvolgendo nelle riflessioni e nelle argomentazioni anche amici e conoscenti. Nonostante sia stato scritto nel 1999, La forza del carattere a mio avviso rimane il più bel trattato di psicologia sulla vecchiaia. Lo psicologo americano (vissuto in Svizzera, allievo di Jung, direttore dello Jung Institut di Zurigo, e conferenziere anche in Ticino) è abilissimo nell’illuminare ciò che ognuno di noi è portato a dare per scontato sull’argomento e, soprattutto, sa parlare a tutti coloro che anagraficamente sono nella Terza età o dovrebbero preoccuparsi per quando lo saranno. Non a caso ai tre capitoli in cui è suddivisa la sua opera (uno per ogni fase della vecchiaia, secondo l’autore) ha voluto fare un’aggiunta dal titolo «La forza della faccia», un breve excursus in cui critica chi, pur di cancellare i segni del tempo dal volto, falsifica l’aspetto alterando così anche lo sviluppo del carattere, il compiersi naturale.

La parte in cui Hillman analizza il fenomeno della perdita della memoria (ovvero l’insorgere dell’Alzheimer, ma il termine non compare mai nel libro, essendo stato scritto venti anni fa) riguarda solo una dozzina di pagine quasi tutte dedicate all’esempio di una sua paziente, sessantenne, obbligata ad accudire la mamma novantenne. Quest’ultima, già «mezzo perduta nei suoi ricordi», andava in depressione non appena la figlia la rimproverava perché non ricordava gli avvenimenti più recenti o le cose più banali (date, indirizzi, appuntamenti, prezzi, notizie del giorno), stava cioè perdendo tutto quello che riguarda la memoria a breve termine. La figlia invece, vedendo la madre «smarrirsi nel passato», cioè rincorrere la memoria a lungo termine, andava a sua volta in crisi avendo «paura dell’ignoto e dell’incontrollabile, posti quotidianamente sotto i suoi occhi dalla graduale disgregazione della madre». Il conflitto non era solo tra figlia e madre, ma anche tra memoria a breve termine e memoria a lungo termine. E secondo Hillman la donna più anziana «stava facendo qualcosa di più che recuperare semplicemente il proprio passato. Stava producendo immagini (…) in un mondo di fantasie e di fantasmi (…) e per quella signora molto vecchia l’immaginazione sotto forma di memoria a lungo termine era perfettamente reale: non meno reale della sua prepotente figlia». Questo succedeva perché nella vecchiaia, prima ancora che nella malattia, «il carattere (…) o la porzione conclusiva della vita ci impone forse di dimenticare tutto ciò che disturba scacciandolo dalla memoria». A questo punto Hillman sembra voler rafforzare la speranza. Dapprima ponendosi una semplice domanda sulla condizione del malato: «Che sia una sottile allusione al fatto che l’anima sta abbandonando i fardelli che porta e che incontra, preparandosi a una più agile partenza?». Poi, quando chiude il capitolo, con un’inattesa congettura: «L’oblio, questa meravigliosa capacità della mente invecchiata, potrebbe anzi essere la più autentica forma di perdono, una benedizione». Sono interpretazioni psicologiche che non bastano certo a consolare chi il dramma dell’Alzheimer l’ha concretamente davanti o attorno a sé, ma possono essere di aiuto per evitare che la demenza senile diventi un incubo per la società del futuro.