Donne, lavoro e denatalità

/ 21.05.2018
di Barbara Manzoni

In Italia c’è chi la chiama peste bianca. Non si tratta di una malattia inguaribile eppure le conseguenze sono paragonabili a quelle di una nuova epidemia. Stiamo parlando della denatalità, un fenomeno comune a buona parte dell’Europa e che da anni tocca anche il Ticino. Il nostro è, infatti, il cantone svizzero con la natalità più bassa, circa 1,4 figli per donna (la media svizzera è di 1,52). L’Italia è messa peggio: il suo indice di fertilità si attesta su uno sconfortante 1,34, il più basso in Europa, che vede invece Francia e Svezia in testa alla classifica con un indice di 1,92 e rispettivamente 1,85. Per inciso precisiamo che l’indice di fertilità indica il numero di figli che una donna teoricamente ha (avuto), in media, durante la propria vita riproduttiva e che, come spiega Lisa Bottinelli in La natalità del Ticino nel contesto europeo («Dati», maggio 2015), «ha il vantaggio di essere immediatamente confrontabile ad un valore di riferimento: 2,1 nati vivi per donna, detto anche tasso naturale di sostituzione... Sotto questa soglia la popolazione diminuisce e l’unica maniera per mantenere un effettivo stabile è ricorrere all’apporto migratorio». È evidente che oltre ad un saldo naturale negativo la denatalità ha anche come conseguenza l’invecchiamento della popolazione e una nuova composizione della società.

L’analisi di questa tendenza in atto ormai da decenni risulta estremamente difficile perché è conseguenza di grandi cambiamenti culturali, sociali ed economici. Alle scelte o situazioni di vita, come ad esempio la posticipazione della maternità, concorrono molte variabili, dal contesto socioeconomico alla disponibilità (e accessibilità) di strutture di custodia per i figli, dai congedi parentali alla religione, l’elenco potrebbe allungarsi enormemente addentrandosi nell’analisi dei comportamenti individuali. Le considerazioni sul fenomeno si sprecano ma un punto sembra ormai metter tutti d’accordo. Nei Paesi in cui la parità fra i sessi è più marcata e il tasso di occupazione delle donne è più alto si fanno più figli, inoltre, e citiamo ancora lo studio di Lisa Bottinelli, «le regioni con importanti quote di donne altamente qualificate sono anche quelle con la natalità più alta». Ovviamente il modello sono ancora e sempre i Paesi scandinavi, dai quali invece sembra che la Svizzera si sia ulteriormente allontanata: stando al Global Gender Gap Report del WEF nella classifica che riguarda la parità tra i sessi il nostro Paese nel 2017 è retrocesso di dieci posizioni (meglio di noi anche il Ruanda).

La denatalità d’altronde ha una notevole influenza anche sul livello della crescita economica di un paese. A tal proposito Banca d’Italia ha pubblicato lo scorso marzo lo studio Il contributo della demografia alla crescita economica: duecento anni di storia italiana. «In sostanza – scrive Maurizio Sgroi su “Econopoly” del “Sole24ore” – gli economisti di Bank-italia asseverano un principio molto semplice: la crescita di un’economia dove gli anziani sono una maggioranza relativa tende a rallentare». Tra gli strumenti utili per compensare le dinamiche demografiche e aumentare la produttività lo studio di Banca d’Italia individua l’aumento della partecipazione delle donne al lavoro. Donne e lavoro sembra dunque essere, su più piani, un binomio imprescindibile per il futuro dell’Europa. E sembra andare in questa direzione anche la riflessione dei consiglieri di Stato Vitta e Beltraminelli che nella recente riforma fiscale e sociale hanno previsto una serie di misure per favorire la conciliabilità fra famiglia e lavoro. Invertire una tendenza epocale è compito estremamente arduo per la politica e l’economia, prenderne atto e iniziare a riflettere sul futuro di un Paese in cui i cortili cominciano ad essere desolatamente vuoti e silenziosi è un dovere di tutti.