Divieto o spegnimento?

/ 24.09.2018
di Ovidio Biffi

Sta salendo la febbre per i nuovi modelli di smartphone. Il più atteso, e non a caso anche il più costoso, resta l’iPhone della Apple. Dietro incalzano altre marche che tentano di imitarne i pregi e le conquiste, spesso agendo da equilibristi in fatto di sfruttamento dei brevetti. L’elenco, all’ultima fiera dell’elettronica svoltasi a Berlino, spaziava dall’eterno secondo Galaxy della Samsung sud-coreana all’Honor Play che vende come nessun altro smarphone in Cina, sino al Wiko che si propone come il miglior «low cost», per finire con il Blackberry che prova a riconquistare i suoi nostalgici estimatori «pre smartphone». Merita un cenno anche la presentazione della quarta generazione dell’AppleWatch: segna ancora l’ora, ma ormai è un sofisticato dispositivo per una vita più sana (riconosciuto dai medici Usa) che esegue persino un elettrocardiogramma. Forse non si arriverà mai all’applicazione che farà apparire sul display il conto alla rovescia di un possibile infarto o ictus dell’utente, ma c’è da temere il giorno in cui i medici (e forse anche gli assicuratori sulla vita...) potranno chiedere l’autorizzazione a consultare i dati dell’AppleWatch che i loro clienti hanno al polso.

Oltre che sui mercati, telefonia e smartphone hanno fatto irruzione anche nell’arena politica ticinese: non per i nuovi modelli, ma per la risposta (negativa) del Consiglio di Stato a una interrogazione che chiedeva se non fosse giunto il momento di vietare come in Francia (ufficialmente per combattere il bullismo) l’uso dei telefonini nelle scuole dell’obbligo. Siamo ancora al si vedrà. Nei pareri raccolti dai media sembrano prevalere i contrari a un divieto che creerebbe tutta una serie di problematiche anche di natura psicologica. Avrebbe più successo una sorta di «black out» (o coprifuoco) limitato a lezioni e alle aule, magari con qualche sforzo di accompagnamento da parte dei docenti per evitare che l’uso di queste tecnologie uccida dialoghi e socializzazione. Per commentare la decisione governativa, il «Corriere del Ticino» ha riportato gli interessanti risultati di una ricerca che l’USI sta conducendo da quattro anni proprio sull’uso dei telefonini tra i giovani fra i 10 e i 15 anni. Dai dati emerge che la diffusione degli smartphone tra gli adolescenti (chiamati «nativi digitali») è sensibilmente aumentata: se nel 2016 in terza media ad avere il telefonino era il 71%, quest’anno la percentuale ha toccato il 93%, mentre il tempo di utilizzo è addirittura raddoppiato (da 6,5 ore la settimana di due anni fa si è arrivati oggi a 13 ore). Non avendo trovato dati sull’uso dei telefonini a scuola mi azzardo a chiedere ai ricercatori di non dimenticare questo settore, anche per eventualmente supportare i docenti della scuola dell’obbligo con tendenze e rilevamenti statistici riferiti a studenti che stanno crescendo con gli smartphone.

Sull’argomento scuola – nativi digitali esiste ormai una sterminata bibliografia. L’istinto mi porta a un articolo scritto diversi anni fa (gennaio 2011) da Serena Danna su «Il Sole 24 Ore». Riporto dapprima il suo avvio: «Addio al vecchio sapere lineare fondato sulla parola scritta e sulla trasmissione di conoscenza maestro-alunno: imparare oggi ha la forma di un suk arabo nell’ora di punta. Tra social network, video-racconti su YouTube, la musica di MySpace, il linguaggio sincopato delle chat e le bufale online, gli studenti di nuova generazione hanno bisogno di una bussola per orientarsi». Se ne deduce che il maestro non è più solo un trasmettitore di conoscenza ma deve imparare ad essere anche un «facilitatore» che fa da filtro tra il caos della rete e il cervello del piccolo studente. A questo proposito l’articolo della Danna, seguendo una serie di giudizi di ricercatori americani, spiega come i bambini cresciuti con consolle e cellulare siano sempre più «abituati a vedere la risoluzione di compiti cognitivi come un problema pragmatico».

Di conseguenza la scuola deve prepararsi a educare i nativi digitali creando una ««partnership informale» tra insegnanti e alunni – la cui cultura è «partecipativa» e si fonda su «produzione e condivisione di creazioni digitali» – in modo da portare bambini e giovani a sentirsi responsabili del progetto educativo». Queste argomentazioni confermano che quello dei telefonini a scuola è sempre stato un problema molto delicato che non può essere affidato solo ai politici. Visto poi che lo studio dell’USI ha appurato che «i genitori tendono a sottostimare, anche della metà, il tempo d’utilizzo dei giovani dello smartphone», è sempre più evidente che occorrerà affidare la ricerca di soluzioni «in primis» alla scuola, vale a dire ai docenti: non tanto per convincere i ragazzi a rinunciare ai telefonini o a spegnerli, ma soprattutto per fungere da «facilitatori», aiutandoli a gestire le nuove tecnologie in modo che non blocchino una sana crescita del loro senso di responsabilità.