Diventando Michelle Obama

/ 24.12.2018
di Paola Peduzzi

Tutti gli eventi con Michelle Obama sono sold out, il suo memoir – Becoming – sta andando molto bene, e anche se lei sottolinea più volte e lo ripete in pubblico: non ho alcuna intenzione di candidarmi, nel suo successo è nascosta la speranza che lei possa cambiare idea ed esaudire il desiderio di molti che una volta detestavano le dinastie al potere e ora per un altro Obama darebbero chissà cosa. In questa stagione in cui sentiamo la mancanza di tutto quel che in passato pure non ci convinceva del tutto, e ci ritroviamo commossi ad ascoltare un George W. Bush che ricorda con la voce rotta suo padre, l’altro Bush (i guerrafondai ricconi venuti dal Texas), ecco, in questa stagione Michelle Obama raccoglie quel senso di speranza che avevamo sempre lasciato in custodia a suo marito Barack.

E il suo memoir è bello, perché conferma l’anima battagliera dell’ex first lady che già conoscevamo e rivela tanti altri piccoli dettagli che raccontano una storia più complessa, più intensa, più affascinante: credevamo di sapere tutto di questa coppia, e invece traspare in Becoming qualcosa di nuovo, un misto di fragilità e di umanità che negli anni alla Casa Bianca non si era mai visto tanto nitido, forse per questioni di ruolo, forse perché la macchina dell’immagine obamiana era freddamente perfetta, forse perché Michelle è davvero l’emisfero caldo della terra degli Obama.

Michelle racconta i trattamenti per la fertilità cui si è sottoposta per concepire le due figlie, Malia e Sasha, l’aborto spontaneo che l’ha fatta sentire inadeguata – una fitta di inadeguatezza a ogni passeggino incontrato per strada – e la terapia di coppia con Barack perché a volte le ambizioni, pur razionalmente condivise, finiscono per travolgere gli equilibri, la stima, persino un amore che pareva indistruttibile. Racconta anche di una fuga dalla Casa Bianca assieme a Malia perché volevano vedere insieme che effetto faceva da fuori la residenza presidenziale illuminata dai colori dell’arcobaleno nel giorno in cui sono stati approvati i matrimoni omosessuali negli Stati Uniti: una fuga d’insegnamento e di battaglia che conferma quel che Michelle vuole mostrare di sé, la sua determinazione, la sua convinzione di essere e di rappresentare, anche in quest’America modernissima, «una provocazione», perché sono donna e sono nera e lo so che un sacco di gente là fuori non si capacita del fatto che io viva in questo tempio bianco.

Ma Michelle è molto di più, ed è per questo che Becoming non è un’autobiografia come tutte le altre, altamente prevedibile. Quando l’ex first lady inizia a parlare di quel che è avvenuto verso la fine della stagione presidenziale, scopriamo che nel cuore la rivoluzionaria è anche molto moderata e molto pragmatica, o forse lo è diventata quando la storia ha smesso di darle ragione. L’elezione di Donald Trump pesa come un macigno nel memoir e nella coscienza di Michelle, non soltanto perché lei è democratica, è la moglie di Obama e si è spesa per Hillary Clinton, ma perché la presenza di Trump alla Casa Bianca impone riflessioni nuove e dolorose sull’esito di una rivoluzione personale e nazionale. Michelle non risparmia critiche a Trump, e quando descrive la faccia di Barack nella notte elettorale del 2016, mentre al telefono gli dicono che i risultati in Florida sono «strani», ci rivediamo tutti in quel preciso attimo glaciale, scossi dal torpore di una vittoria annunciata e ancora increduli, increduli per un sacco di giorni a venire.

Ma mentre critica Trump, l’ex first lady recupera la pazienza che aveva perduto negli anni dell’avventura politica più importante del mondo e che forse anche prima aveva in misura molto ridotta: da ragazzina aveva ottenuto l’amicizia di una dura della scuola facendo la bulla più di lei, tirandole un pugno sul naso, ma Michelle oggi dice che «quando gli altri volano bassi noi dobbiamo volare alto», non rincorriamo i truci sul loro terreno truce, ma armiamoci di pazienza, tantissima, e restiamo determinati sì, ma anche quel che siamo noi. La ricerca di un’eredità culturale da lasciare ai più giovani riporta Michelle in un centro che forse non ha mai abitato prima, fatto di realtà e di caparbietà, ma anche di fragilità: dice che oggi, anche oggi, sente ancora ogni tanto «la sindrome dell’impostore», il dubbio che abbiano ragione gli altri se non la vogliono prendere sul serio. Dura un istante ma è un istante importante: permette di coltivare la pazienza, merce rara in questa età di voraci, di non dare nessuna conquista per sicura, e di progettare un futuro fatto di combattenti delicati ma risoluti, come Michelle nel suo emisfero caldo.