Diamo merito ai geografi

/ 14.05.2018
di Orazio Martinetti

Quella della geografia, nei programmi scolastici, è una presenza discreta. C’è ma non fa rumore come altre materie ritenute politicamente sensibili, e non suscita polemiche. Nel campo delle scienze umane è rimasta sempre un po’ ai bordi, intimidita e silente. A parole tutti riconoscono allo studio del territorio un ruolo formativo e civile. Fondamentale, certo, ma non come la letteratura, la storia, la filosofia, l’educazione civica, l’economia. Nella mente delle generazioni meno giovani è rimasta conficcata come un chiodo l’immagine di una materia arida, zeppa di bandiere, nozioni, fiumi valli montagne città da mandare a memoria. E questa nomea l’ha rovinata.

Da tempo non è più così, come sa bene chi la coltiva, tra cui la nostra benemerita «Gea-Paesaggi territori geografie», società che raduna docenti e cultori della disciplina. Alla geografia fisica si è via via aggiunta nel corso dei decenni la geografia umana, la geostoria, la geopolitica, contaminazioni che hanno arricchito il suo statuto originario, dilatandone gli orizzonti. Spazio e tempo, uomini e risorse, migrazioni e sviluppo urbano, trasporti e vie di comunicazione. I libri che oggi vanno per la maggiore, e che narrano di viaggi, di mappe, di frontiere vecchie e nuove, poggiano tutti su questo modo di osservare l’ambiente circostante, uno spazio sollecitato, trasformato, e spesso reso irriconoscibile da interventi scriteriati. Più il paesaggio sprofonda nel cemento e nell’asfalto, più gli abitanti cercano riparo e conforto nelle aree non ancora corrose dalla civiltà delle macchine, negli angoli remoti, nella natura allo stato selvaggio. Il successo dei racconti di Paolo Cognetti si spiega anche così, come desiderio di fuggire da un mondo vissuto come estraneo per rifugiarsi nella quiete d’alta quota. Di silenzio e di solitudini parlano pure molti testi di autori nordici (norvegesi, finlandesi, svedesi), alle prese con i lunghi inverni che ritmano le giornate dell’emisfero settentrionale.

Da questi testi si ricavano molte lezioni. Il distacco dalla frenesia quotidiana favorisce il raccoglimento e la meditazione; offre sollievo, abbassa il battito cardiaco, rigenera il fisico e lo spirito. Ma nel contempo invita a «leggere» il territorio con occhi diversi. L’ultimo quaderno che Gea pubblica (n. 37) riporta un denso saggio di Ruggero Crivelli, docente all’Università di Ginevra sul tema «cosa insegnano le Alpi ad un geografo». Insegnano molte cose, sostiene l’autore, ma a patto di aguzzare la vista, pre-condizione assoluta per scavare sotto la crosta delle apparenze. Occorre insomma saper cogliere i segni nello spazio e nel tempo: impronte e sedimentazioni lasciate dalle popolazioni che nel corso dei secoli hanno «occupato» le montagne, piegandole alle esigenze del momento. Le Alpi come «insieme di segni» distribuiti in modo difforme, poco visibili perché frutto di stratificazioni secolari. Uno dei rivelatori di questa indefessa attività, oggi in parte abrasa dalla modernità galoppante che tutto spiana e livella, è rappresentata dalla ragnatela dei toponimi. Nominare un luogo vuol dire renderlo riconoscibile per inserirlo nel ciclo dei lavori stagionali e delle transumanze. Uno spazio innominato finisce nel buco nero dei non-luoghi invasi dal bosco e dalle sterpaglie. Eugenio Turri – uno dei numi tutelari di Gea accanto a Claude Raffestin – parlava in proposito di «semiologia del paesaggio»: una trama di orme impresse nella terra dai frequentatori degli spazi montani: agricoltori, allevatori, viandanti, pellegrini, eserciti, letterati.

Solo questo sguardo attiva l’empatia e quindi il rispetto dei luoghi; solo questo approccio è in grado di alimentare politiche e programmi di sviluppo che non riducano la catena alpina ad una miniera a cielo aperto, sfruttabile a piacimento (acqua, neve, vento, legna).

Le riflessioni che Crivelli espone in questo suo saggio sono ampiamente condivisibili. Trascura però un aspetto vitale, ineludibile: l’aspetto demografico. Concretamente l’esodo dei giovani, l’invecchiamento che svuota le case dei villaggi, il calo degli agricoltori-allevatori. Nessuna rinascita delle valli sarà mai possibile in assenza della risorsa-uomo (donna), nessun rilancio, nessuna iniziativa culturale destinata a durare. Le Alpi disabitate non potranno che finire nelle mani della speculazione e degli interessi esterni.