D’Annunzio ai giovani ticinesi

/ 30.09.2019
di Orazio Martinetti

Per molti ticinesi impegnati nella diatriba sulla «preferenza indigena» parrà strano apprendere che un tempo, più o meno un secolo fa, le relazioni italo-svizzere non trasudavano reciproco astio. Anzi, un giovane filosofo veronese rifugiatosi a Lugano dopo i tumulti del 1898, Giuseppe Rensi, definì il Ticino «una repubblica italiana»: una terra incastonata nella Confederazione, su questo non era lecito nutrire dubbi, ma inconfondibilmente latina nella lingua, nei costumi e negli usi, nella mentalità, nelle pratiche devozionali cattoliche. L’elemento distintivo risiedeva nell’ordinamento politico-istituzionale: monarchico, seppur temperato dallo Statuto albertino, quello regnicolo; schiettamente repubblicano quello ticinese, in sintonia con la Costituzione elvetica. Era una differenza fondamentale, che tuttavia non intaccava il dato di fondo, ossia il volto italico del cantone e della sua popolazione.

Un altro aspetto meritevole di essere ricordato riguarda l’attività di un circolo d’intellettuali che nel 1912 dette vita ad una pubblicazione anomala nella pur rigogliosa selva cartacea del paese: «l’Adula», sottotitolo «organo ticinese di coltura italiana». Il gruppo, ispirato dal glottologo Carlo Salvioni, nazionalista e poi fervente interventista, si propose di tutelare l’italianità, sempre più insidiata dall’infiltrazione tedescofona, giunta al Sud delle Alpi a bordo delle carrozze ferroviarie. Diretto da due donne, Rosetta Colombi e Teresa Bontempi (altra stranezza, per l’epoca), «l’Adula» intendeva ergersi, al pari della montagna più alta del cantone, a vedetta e guardiana dell’indole latina, primo presidio lungo il crinale delle Alpi. Sulla testata cadde immediatamente l’accusa di «irredentismo», ovvero di perseguire il proposito di riannettere la regione all’Italia, già dominio dei duchi milanesi. Dopo Trento e Trieste, sarebbe toccato al Ticino ricongiungersi alla madrepatria, quella vera, dispensatrice di sangue e spirito italici. 

Le simpatie per le sorti dell’Italia, manifeste fin dagli anni del Risorgimento, riemersero tumultuosamente nel 1915, con l’entrata in guerra del Regno a fianco dell’Intesa. Scrittori come Francesco Chiesa e politici come Giuseppe Cattori seguirono le vicende con ardente trepidazione, sussultando ad ogni offensiva dell’esercito regio sull’Isonzo.

A guerra terminata, gli ideali de «l’Adula», in sé lodevoli, iniziarono a scivolare verso il terreno della contesa politica. Le veementi proteste per l’esclusione di Fiume dai territori assegnati all’Italia (e che perciò si ritenne vittima di una «mutilazione») spinsero Gabriele D’Annunzio – il poeta guerriero, il vate, l’imaginifico – ad organizzare nel settembre del 1919 una spedizione armata verso la città adriatica, dove rimase fino al Natale del 1920, dando vita ad un esperimento di governo festosamente anarchico. Nella Carta del Carnaro, redatta dal poeta ricalcando una bozza del sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, si precisò che «Fiume, libero comune italico da secoli, è l’estrema rocca della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco… è pienamente compresa entro quel cerchio che la tradizione la storia e la scienza confermano confine sacro d’Italia».

Erano parole e formule di grande suggestione, che non lasciarono indifferenti gli aduliani e gli irrequieti seguaci dell’araldo del riscatto italiano. Un’ammirazione che D’Annuncio ricambiò nel novembre del 1920 inviando ai «giovani ticinesi» un messaggio sottilmente ambiguo, e affacciando l’idea che l’ora della liberazione sarebbe presto arrivata: «Il mio pensiero è con voi e con la vostra Terra», e aggiungeva – riprendendo un verso di Dante – che «le più belle albe non sono ancora nate».

D’Annunzio e i suoi legionari furono sloggiati da Fiume dallo stesso governo italiano a cannonate. Quella impresa rimase tuttavia impressa nella mente di Benito Mussolini, che infatti la replicò, con ben altri esiti, nel 1922 (marcia su Roma). Nel frattempo anche «l’Adula» abbracciava la causa del nascente fascismo, tutta protesa a rinverdire l’antica gloria della penisola e con questa il prestigio dell’italianità fuori d’Italia. Per quel piccolo gruppo fu un terribile abbaglio, che trasformò un’iniziativa coraggiosa in un veicolo di propaganda del regime littorio nella Svizzera italiana.