Le migrazioni dall’Africa all’Europa stanno rivoltando il terreno politico del vecchio continente. Partiti finora marginali, inconsistenti, privi di programmi sono diventati improvvisamente l’ago della bilancia degli equilibri politici. L’afflusso di profughi ha dato loro voce ed ossigeno: senza questa insperata propulsione esterna avrebbero continuato a vegetare nel limbo delle monche esistenze.
Ma gli effetti delle correnti migratorie sono molteplici ed estesi, una vera e propria bomba a grappolo. Investono non solo la politica, ma anche la sfera mentale, condizionando scelte e comportamenti. Il divieto del burqa in Ticino ha rappresentato un caso esemplare. Pochi, pochissimi avevano visto di persona una donna abbigliata in quel modo. Un pericolo immaginario. Eppure si è ritenuto urgente approvare una norma in via preventiva.
Televisione e web stanno viepiù orientando l’opinione pubblica. Un tempo si diceva che la paura è cattiva consigliera. Adesso non più; anzi, la paura è considerata un’efficiente macchina generatrice di voti. Cavalcarla assicura consensi e seggi.
Il ricorso alla paura, naturalmente, non è una strategia nuova nella contesa politica. Ma fino a qualche anno fa le forze organizzate (partiti, sindacati, associazioni) sapevano controllarla, addomesticarla, incanalarla. I politici esitavano prima di gettare benzina sul fuoco; tra la civiltà e l’inciviltà correva una linea rossa che non andava varcata. I partiti maggiori s’erano dati come missione quella di formare le giovani leve. Giornali, riviste, seminari interni, convegni provvedevano a diffondere la cultura politica di riferimento. Ch’era cattolica, liberale-radicale, socialista, comunista. Una cultura politica non fatta di 140 caratteri, ma di letture, studio, documenti strutturati, confronti tra persone d’estrazione diversa.
Di questa stagione sono rimaste solo briciole, ritagli di giornale ormai ingialliti, fogli staccati da libri malamente incollati. Oggi siamo tutti prigionieri di una centrifuga mediatica che ruota sempre più velocemente, vortice di emozioni e risentimenti che impediscono alla ragione di esercitare le proprie funzioni. Al punto che l’altro (il rifugiato, il migrante, l’espatriato, il frontaliere, il fresco naturalizzato, il doppio cittadino) non incrocia sguardi amichevoli ma occhi malfidenti. Come se lo statuto di forestiero portasse con sé automaticamente quello di delinquente potenziale.
Eppure la legislazione elvetica sulla cittadinanza – fondata sullo «ius sanguinis» – è probabilmente la più restrittiva d’Europa e non si vede come si potrebbe renderla ancor più rigida ed esclusiva. La «Legge federale sull’acquisto e la perdita della cittadinanza», varata nel 1952 e più volte rivista, prevede sempre un soggiorno sul territorio svizzero della durata di almeno dodici anni: solo a quel punto il candidato ha la facoltà di presentare la domanda in base ai requisiti richiesti, definiti nell’apposita Ordinanza (la nuova entrerà in vigore il prossimo 1° gennaio). I requisiti (o criteri d’integrazione) sono condensati nei seguenti tre punti: a) «possiede conoscenze basilari del contesto geografico, storico, politico e sociale della Svizzera»; b) «partecipa alla vita sociale e culturale della società in Svizzera»; e c) «intrattiene rapporti con cittadini svizzeri». Deve inoltre aver dato prova di una condotta di vita irreprensibile (fa stato il casellario giudiziale).
Una procedura del genere implica non solo un esame comprovante le conoscenze di cui sopra (test obbligatorio, in primis della lingua del cantone in cui abita), ma anche una pesante ingerenza nella vita privata (indagini delle autorità competenti). Insomma, l’atmosfera illustrata nel 1978 dal cineasta Rolf Lyssy nel suo Die Schweizermacher appare riproponibile tuttora con poche, minime variazioni. Più che di «porte semiaperte» (l’espressione è del demografo Etienne Piguet) si dovrà parlare, in futuro, di «usci semichiusi». Il che appare paradossale per un paese come la Svizzera, un paese – come si dice spesso – «fondato sulla volontà». Se fa stato la volontà, e non il sangue, tutti i richiedenti che si riconoscono pienamente nei princìpi elencati nella Costituzione repubblicana potrebbero diventare cittadini svizzeri. A determinare la cittadinanza basterebbe questo discrimine normativo, ovvero il «patriottismo costituzionale», e non la tanto invocata «questione dei valori», che sappiamo essere mutevole ed esposta agli umori del momento. Umori che oggi non consentono di ragionare in modo spassionato su questi temi.