La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti dura oramai da quasi un anno e merita quindi di essere commentata. Finora sembra sia la Cina ad aver sopportato le conseguenze negative maggiori. Il tasso di crescita della sua economia è stato, lo scorso anno, tra i più bassi degli ultimi decenni, inferiore, in pratica, al 7%. Negli Stati Uniti, invece pare che siano stati gli agricoltori ad assumersi la parte più consistente dei costi di questa politica mentre a livello macroeconomico, finora, non si è manifestato nessun colpo di freno. È quindi difficile fare un bilancio degli effetti delle misure protezionistiche adottate sin qui dai due paesi. Quel che è certo è che il protezionismo genera costi. Meno certo è invece che i suoi guadagni siano tali da compensare i costi.
Siccome la guerra commerciale non pare sia destinata a cessare molto presto, ci si può chiedere quali potrebbero essere i suoi sviluppi. Per far questo è forse utile partire dall’esame degli argomenti che vengono avanzati, negli Stati Uniti come negli altri paesi che, nel corso dell’ultimo decennio si sono convertiti al protezionismo, per giustificare questa conversione. In generale i governi interessati hanno evocato, a giustificazione delle loro misure protezionistiche, una delle seguenti quattro ragioni. Dapprima la mancanza di una politica commerciale equa da parte del paese o dei paesi concorrenti. In secondo luogo, l’esistenza di una situazione di dumping sociale motivata dai salari molto bassi da loro praticati. Vien poi l’argomento del dumping dei prezzi quando, per mezzo di sussidi o altre agevolazioni all’esportazione, le aziende esportatrici dei paesi concorrenti possono offrire prodotti a prezzi più bassi di quelli praticati sul mercato nazionale. L’ultimo argomento, chiamato, nella letteratura sul commercio internazionale, anche «problema giapponese», è rappresentato dal fatto che alcuni paesi (non solo il Giappone ma anche la Germania e la Cina) conoscono persistenti saldi positivi della loro bilancia commerciale, o della loro bilancia dei pagamenti. Questi paesi vengono di solito accusati di non aprire a sufficienza le loro frontiere all’importazione dalle economie concorrenti. Con l’aumento dei dazi o la fissazione di quote all’importazione il paese che adotta misure protezionistiche vuole quindi indurre i suoi concorrenti ad adottare comportamenti più consoni al modello della concorrenza equa. Le misure di protezione, dunque, non dovrebbero estendersi al di là del periodo necessario a obbligare i concorrenti a cambiare il loro comportamento.
Ma nel quadro di governi a valenza nazionalistica, il protezionismo ha anche, anzi si può dire soprattutto, finalità politiche in particolare quelle di rafforzare la supremazia economica della nazione che lo adotta. Non sorprende quindi che le economie concorrenti, toccate dalle misure protezionistiche rispondano con altre misure protezionistiche. Il risultato di questo scambio di cortesie è naturalmente quello di frenare lo sviluppo del commercio internazionale e, di conseguenza, anche la crescita economica dell’economia mondiale. Un’altra, conseguenza del protezionismo è quella di sollecitare l’espansione degli investimenti diretti e lo sviluppo di aziende multinazionali. L’esportatore del paese X che si vede imporre, per un periodo di tempo difficile da stimare, un aumento spropositato dei dazi sui beni che esporta nel paese Y cercherà di aggirare la misura creando unità di produzione o filiali nel paese Y. La storia economica ci ricorda, per fare un solo esempio, il caso dell’industria svizzera del cioccolato che è diventata multinazionale, nel periodo tra le due guerre mondiali, proprio per evitare di dover pagare i dazi imposti dal generale ritorno al protezionismo delle economie sviluppate.
Accenniamo da ultimo a una soluzione ancora più sofisticata per sfuggire agli impedimenti del protezionismo che è quella che sta promuovendo il governo cinese con il suo mastondontico progetto della «nuova via della seta». Anche qui si tratta di investimenti diretti. Si tratta di un a specie di nuovo «piano Marshall» con il quale i cinesi intendono risanare, ampliare e ammodernare tutta una serie di infrastrutture di trasporto (per via di mare o per via di terra) che uniscono i mercati cinesi a quelli dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa. Ovviamente la Cina spera che i suoi investimenti si traducano in un aumento consistente del commercio internazionale e che questo rafforzi soprattutto la sua posizione di supremazia sul commercio mondiale.