«Buongiorno»: si apre con un saluto, ovviamente sonoro, l’editoriale dell’ultimo numero di «Arcobaleno», la rivista parlata di Unitas, l’Associazione ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana. L’autore, Elio Medici, affida quindi il suo messaggio alla comunicazione orale, e così avvia un colloquio destinato a coinvolgere immediatamente l’ascoltatore. Rispetto alla pagina scritta o stampata che, spesso, arriva da un estraneo, magari mette in soggezione e può essere letta a posteriori, quella parlata reca l’impronta riconoscibile di una voce e crea, fra mittente e destinatario, un rapporto personale diretto. Contiene, insomma, i presupposti di un’amicizia che fa capo al comune denominatore di un handicap, con cui imparare a convivere, sviluppando la solidarietà indispensabile per conquistare autonomia sul piano sociale e professionale e, non da ultimo, su quello morale e psicologico. Tanto da consentire persino l’approccio scherzoso e ironico nei confronti della propria disabilità. Si deve addirittura parlare di autoironia, un atteggiamento culturale, che rappresenta un traguardo di un alto grado di emancipazione e libertà. Non si tratta, certo, di banalizzare una condizione di vita, ancora alle prese con barriere materiali e soprattutto con barriere mentali, pregiudizi e luoghi comuni: da demolire con l’arma dell’ironia e dell’autoironia.
Proprio il citato editoriale dimostra come, oggi, sia possibile affrontare il tema dell’handicap da quest’insolito versante. Punto di partenza del messaggio, trasmesso da Medici, una pagina su Facebook, intitolata «cecando scherzando»: con la quale un amico siciliano denuncia le domande sciocche che continuano ad assillare i ciechi nella loro quotidianità. «Tranquilli», osserva Elio «niente di male e di offensivo, ma semplicemente fuori posto». Però vale la pena di riportarle. Infatti ci appartengono. Le abbiamo, tutti, ascoltate o pronunciate, con l’attenuante dell’inconsapevolezza. Adesso, in maniera sorridente, gli effetti collaterali della banalità.
«Indovina chi sono?» O «Ti ricordi di me?»: è la domanda sciocca, più ricorrente, nell’esperienza quotidiana di Medici: Di solito, arriva da un conoscente, al quale risponde sempre negativamente: «Non sono forte in indovinelli, non ho mai vinto al gioco del rumore misterioso». Alla stessa stregua, «la pacca sulla spalla senza proferir parola» è un gesto che testimonia familiarità, coperta da un silenzio imbarazzante. «Chi mi vuole? Non ho doti paranormali per saperlo». E la serie continua con un interrogativo che, più di altri, sembra infastidire il non vedente: quando seduto in treno o in una sala d’aspetto, luoghi che inducono alla conversazione, si sente chiedere: «Cieco dalla nascita o da adulto?»
Qui, Elio avverte una sfumatura di compassione e un maldestro tentativo d’aiuto. Del tipo: «Non c’è una cura? Ho letto di una nuova sperimentazione…». Ciò che provoca una reazione irremissibile: «Ma legga bene, queste cure le fanno solo sui topi!» Ma, peggio ancora, c’è chi gli chiede «Come fai a mangiare?» Al che, divertito, risponde: «Fino a 50 anni fa, i ciechi morivano di fame perché non trovavano la bocca. Adesso, siamo fortunati: abbiamo posate con appositi sensori».
Da tutte queste esperienze, Elio Medici sembra ricavare una conclusione negativa: come se l’opera di sensibilizzazione, condotta in oltre mezzo secolo dall’Unitas, non sia servita a nulla. «Siamo sempre ai piedi della scala?» si domanda. Ora, lui stesso, attraverso la sua storia personale, fornisce la prova di un’emancipazione concreta che include l’attività professionale come informatico, il bisogno e il piacere di viaggiare, la capacità di scoprire attraverso sensazioni allargate: suoni, profumi, voci, atmosfere. Tutto ciò in quel buio in cui i ciechi riescono a orientarsi con disinvoltura e buon umore. Mentre, per i vedenti, rimane un tabù persino umiliante. Avete mai partecipato a una cena al buio dell’Unitas? È un’esperienza che lascia il segno.