Mi ha colpito molto l’accoglienza ricevuta da Matteo Salvini nel quartiere romano di San Lorenzo, teatro dell’orrendo omicidio di Desirée, la sedicenne laziale drogata, stuprata per dodici ore e lasciata morire da un gruppo di spacciatori africani, vanamente espulsi (in teoria) nei mesi scorsi dall’Italia.
Qualsiasi ministro dell’Interno che arrivasse sul luogo di un delitto verrebbe fischiato; rappresenta lo Stato, e anche se il crimine non è colpa sua la gente di solito lo contesta. Se Salvini viene acclamato dai più (a parte qualche voce di dissenso), è perché all’evidenza la sua strategia di presentarsi come capo dell’opposizione, nonostante sia ministro dell’Interno da cinque mesi (non cinque anni, ma nemmeno cinque giorni), paga. Oltretutto a San Lorenzo, il quartiere un tempo più rosso di Roma, l’unico a opporsi ai fascisti calati sulla capitale il 28 ottobre 1922; a conferma di quanto sia sbagliato leggere le vicende di oggi con gli occhiali ideologici del passato.
Le cose da fare sono molte. Fermare il traffico di esseri umani, che una volta arrivati in Italia restano spesso sbandati, senza lavoro, in balia della malavita. Ripristinare la legalità, senza zone franche. Stroncare il traffico di droga con leggi più severe, a costo di costruire nuove carceri: come non capire la frustrazione degli agenti che si vedono sfilare davanti gli spacciatori che hanno arrestato e sono stati subito rilasciati? Costruire una nuova cultura dei controlli: ha senso che i carabinieri fermino i passanti a caso sotto il loro comando generale (cioè nell’ultimo luogo al mondo dove qualcuno andrebbe a delinquere), e lo stesso facciano i finanzieri, come a marcare il territorio, mentre ci sono zone calde della capitale dove le forze dell’ordine si vedono di rado?
Infine, la cosa forse più importante: c’è una generazione che fa della droga un’abitudine. La scuola, la famiglia, la chiesa: tutti sono chiamati a fronteggiare l’emergenza educativa.
Salvini si è distinto in questi giorni anche con un’altra proposta: costringere i negozietti etnici, spesso aperti nelle grandi città italiane tutta la notte, a chiudere alle 21, accusandoli più o meno velatamente di essere centrali di spaccio della droga. Nello stesso periodo si discute in Italia della mensa di Lodi, dove con il pretesto di far pagare la refezione a tutti la sindaca leghista ha obbligato le famiglie immigrate a provare di non avere proprietà terriere o edilizie nei Paesi d’origine; cosa molto difficile. Come risultato, i bambini di origine straniera hanno mangiato per giorni i panini portati da casa in una sala diversa da quella dove mangiavano gli altri bambini; fino a quando una colletta di privati cittadini ha consentito agli immigrati di pagare la retta e ai loro figli di mangiare con tutti gli altri.
A volte è meglio lasciar posare le polemiche e le strumentalizzazioni per ragionare con maggiore serenità. Molti hanno difeso la sindaca. Certo che la mensa scolastica è un servizio e va pagato. Ma nel caso di Lodi, non prendiamoci in giro, l’esponente leghista non ha fatto la sua mossa per recuperare risorse; l’ha fatta per rendere la vita più difficile ai figli di immigrati.
Ma in Italia non può essere consentita una forma strisciante di apartheid. Sessant’anni dopo Rosa Parks, non ci sono possono essere posti riservati ai neri e ai bianchi sulla metro (antica proposta di Salvini quand’era ancora il leader della Lega milanese). Ricordiamoci che gli attentati islamici a Londra e a Parigi non li hanno fatti gli immigrati di prima generazione, ma i loro figli, che si sono sentiti esclusi e diversi.
Altro discorso è ripristinare la legalità, sospesa in troppi quartieri. Troppi spacciatori, spesso stranieri, agiscono impuniti. Magari anche nei negozietti etnici, che non vanno criminalizzati (esistono in tutte le grandi città americane ed europee), ma controllati. E i controlli non sono mai abbastanza. Se la legge attuale non consente di tenere gli spacciatori in galera, la si cambi, e si costruiscano nuove carceri. Non possono esistere zone franche nelle città italiane. L’integrazione si costruisce anche così, facendo rispettare a tutti le stesse regole e gli stessi valori. Credo che la Svizzera, anche con le sue durezze, abbia qualcosa da insegnare all’Italia.