Lo Stato islamico continua a perdere uomini e terreno in Siria e in Iraq. Nel 2014, quando fu annunciato il califfato da parte di Abu Bakr al Baghdadi nella celebre (e ormai spianata) grande moschea di Mosul, il gruppo jihadista occupava circa 60 mila chilometri quadrati di territorio, a cavallo tra la Siria e Iraq, un unico stato. Oggi secondo le stime lo Stato islamico occupa 16 mila e cinquecento chilometri quadrati, ha perso il 70 per cento del suo impero, compresa Mosul, la capitale di fatto del califfato, caduta dopo nove mesi di combattimenti. La città irachena fa un po’ da sintesi della storia dello Stato islamico: Mosul fu conquistata nell’indifferenza del resto del mondo, gli abitanti provarono persino a capire se si poteva convivere con questi nuovi padroni, presto scoprirono – a suon di violenze e brutalità inimmaginabili – che non c’era modo, e la necessità di frenare questa avanzata trionfale è diventata urgenza.
Quando infine le forze irachene e le forze sciite, con la copertura aerea della coalizione a guida americana, sono riuscite a fare breccia dentro Mosul, lo Stato islamico è arrivato a distruggere la sua moschea, che è famosissima perché ha il minareto pendente, e non c’è abitante di Mosul che riesca oggi ad alzare gli occhi e a non struggersi per la mancanza, all’orizzonte, di quella torre con la gobba. Se non possiamo averla noi questa moschea, hanno detto gli jihadisti del califfato, non la può avere nessuno: la base della moschea era stata minata, pronta a esplodere – accusando ovviamente gli americani dello scempio – nel momento della sconfitta.
Chi verrà dopo di noi, questo è il punto. Lo Stato islamico sta perdendo la sua capacità feroce d’attrazione, non arruola più foreign fighters, il Pentagono dice di aver ucciso 60 mila combattenti e di voler colpire ancora fino a che la leadership del gruppo non sarà annientata. Ma chi controllerà i territori liberati? Questo è l’interrogativo che tutti si pongono, ed è il più difficile perché riporta alla memoria una delle debolezze più grandi dell’occidente in guerra: la ricostruzione politica dei paesi sfasciati dal terrorismo. L’Iraq è lì a dimostrarlo, anzi la storia stessa dello Stato islamico è lì a dimostrarlo: il gruppo nacque dalle ceneri di al Qaida in Iraq, distrutta dalla campagna militare americana e dal celebre «risveglio» delle province sunnite contro i terroristi.
A oggi buona parte della leadership dello Stato islamico è composta da combattenti di lunga data, sopravvissuti alla coalizione dei volenterosi e poi pronti a ricostituirsi nel momento in cui l’attenzione internazionale s’è rivolta altrove. Il ritiro delle truppe americane dall’Iraq assieme alla politica fintamente inclusiva dell’allora premier iracheno Nouri al Maliki (che è ancora in corsa, vuole riprendersi il potere alle elezioni del 2018) hanno consentito allo Stato islamico di proliferare, non visto. Quella lezione, a partire dal 2010, è oggi forse più rilevante rispetto alla tradizionale «lezione irachena», che riguarda l’invasione voluta dagli Stati Uniti nel 2003: se si distolgono gli occhi oggi, si rischia di ritrovarsi da capo nel giro di qualche anno.
In Siria la situazione è ancora più complicata. L’offensiva contro Raqqa continua, buona parte dei miliziani dello Stato islamico è fuggita o è stata catturata, ma sul futuro della città e del paese ci sono molti interrogativi. Il regime di Bashar el Assad controlla alcune parti della Siria, ma da anni si occupa più di bombardare i ribelli che di ricacciare indietro lo Stato islamico. Essendo poi alla guida di uno stato tecnicamente fallito, Assad deve fare i conti con molti interlocutori per potersi accaparrare di nuovo la leadership di un paese che ha ampiamente contribuito a distruggere. I suoi partner d’elezione, i russi e gli iraniani, hanno i loro interessi: Mosca vuole mantenere il suo approdo al Mediterraneo e soprattutto deve gestire con attenzione il budget e il rapporto con l’America di Donald Trump, tra accuse di collusione e parecchi dispetti.
Teheran vuole creare un corridoio d’influenza che passa da Damasco e arriva a Beirut, ed è il motivo per cui sta già ingaggiando scontri aerei con gli americani. Anche l’abbattimento dei jet siriani da parte delle forze della coalizione a guida internazionale segnala il problema: la guerra per controllare i territori liberati dallo Stato islamico rischia di essere più destabilizzante di quella contro lo Stato islamico. Senza l’alibi «tutti insieme contro il terrorismo», la lezione del 2010 risulta decisiva: senza un piano di transizione chiaro, la sconfitta dello Stato islamico potrebbe non essere affatto risolutiva.