Conte 2, non per caso

/ 09.09.2019
di Aldo Cazzullo

A mia memoria, non ricordo un governo più modesto del Conte-2. Forse solo il Conte-1.

Non c’è dubbio che la selezione della classe dirigente sia una delle grandi questioni italiane. Vale per la politica, e non solo. Nel 1996, quando si affacciò per la prima volta al governo, la sinistra italiana portò Beniamino Andreatta alla Difesa, Giorgio Napolitano agli Interni, Carlo Azeglio Ciampi all’Economia. Erano persone ben conosciute agli italiani, che venivano da lontano. Potevano non piacere; ma almeno si sapeva chi erano. Ministro degli Esteri era il premier uscente, Lamberto Dini. Il presidente del Consiglio era stato ministro con Andreotti quasi vent’anni prima e aveva presieduto per due volte l’Iri. Il vice era Walter Veltroni, alle Telecomunicazioni c’era Antonio Maccanico che era stato segretario generale del Quirinale con Pertini. 

Oggi il partito democratico torna al governo senza i suoi leader. Non c’è il segretario Zingaretti, non ci sono gli ex premier Letta, Renzi, Gentiloni. Non ci sono neanche i numeri 2, gli Orlando e le Boschi. Siamo quindi alle terze file. È una scelta: puntare su nomi nuovi, che non abbiano sedimentato il livore dei social. Al tempo della rete, avere una storia, un curriculum, un percorso diventa un handicap e non un vantaggio.

Il discorso vale a maggior ragione per i Cinque Stelle. Un tempo si diventava ministri del Lavoro dopo aver diretto confederazioni sindacali da milioni di iscritti, come accadde a Franco Marini. Faccio il giornalista da trent’anni, ma la nuova ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, non l’avevo mai sentita nominare.

Senza gettare la croce addosso a nessuno, molti ministri del secondo governo Conte  sono del tutto sconosciuti all’opinione pubblica. E anche il presidente del Consiglio resta una sorta di mistero.

Quando entrò a Palazzo Chigi per la prima volta, nessun italiano conosceva il suo volto o aveva mai sentito la sua voce. In questi mesi molti hanno imparato ad apprezzarlo (confesso di non essere tra questi, non amando né il suo stile che Giampaolo Pansa ha definito da gagà né il suo linguaggio involuto da azzeccagarbugli). 

Comunque l’uomo ha dimostrato di avere diverse qualità. Ambizione. E mediazione. È riuscito a restare in piedi stretto nella tenaglia populista Salvini-Di Maio, evitando all’Italia due procedure di infrazione (con l’aiuto del ministro dell’Economia Tria), e ponendosi in Europa come l’argine a guai peggiori. Nessuno può più considerarlo premier per caso.

Ora però non si presenta più come mediatore, ma come leader. Sarà ancora più difficile. Mi ha colpito come, elencando i ministri, ha messo davanti se stesso: «Sarò affiancato da…» Come a dire: il governo sono io. Ed è abbastanza vero. Con il Pd che si affida a personaggi di secondo e terzo piano, con Di Maio oggettivamente ridimensionato – ma non fuori gioco –, con Mattarella che ha piena fiducia in lui, è evidente che le sorti del governo sono innanzitutto nelle mani del premier.

Resta da capire cosa farà Matteo Renzi. L’intervista con cui ha aperto al governo istituzionale – divenuto rapidamente l’unico governo possibile: un’alleanza tra Pd e Cinque Stelle – ha spiazzato tutti. Di sicuro Renzi voleva evitare le elezioni subito: avrebbe perso il controllo dei gruppi parlamentari del partito democratico, e non avrebbe avuto il tempo di farsi il suo, di partito. 

Tre ministri appartengono alla sua area, ma non alla sua cerchia più stretta. Sarà fedele e leale a Conte, di cui non è un estimatore? O non rinuncerà a giocare la sua partita in proprio, magari proprio preparando la scissione?

Resto convinto che Renzi intenda riprendersi il partito democratico, piuttosto che lanciarsi nell’avventura di un nuovo movimento. Ma dopo questa crisi di governo, dopo l’autogol clamoroso di Salvini, dopo il ribaltamento di assetti e rapporti cristallizzati da anni, dopo tutto questo non possiamo più stupirci di nulla.