Contadini dell’ultima ora

/ 26.08.2019
di Bruno Gambarotta

Quarto capitolo del trattato sulla «torinesità». Il Torinese prima o poi riscopre l’esistenza della campagna perché nel suo DNA si celano i geni di un ascendente campagnolo. Veniamo tutti di lì e abbiamo fatto ogni sforzo per cancellare le nostre origini. Poi, un bel giorno, arriva la folgorazione provocata dal matrimonio di un cugino, il funerale di uno zio, un pezzo di cascina o di vigna ricevuto in eredità o la visita agli amici che hanno una casa in campagna. La prima stazione della scoperta è un delizioso pranzo sull’aia, all’ombra di un platano piantato dal bisnonno (a quanto pare i nostri antenati trascorrevano il tempo a piantare alberi).

Ogni portata è accompagnata da una conferenza dei padroni di casa sulle zucchine e sull’insalata: «Un’ora fa erano ancora nell’orto, vive»; sui pomodori allevati liberi e spontanei col metodo Montessori e concimati con letame selezionato: «Non quelle porcherie che mangiate in città, importate dalla Cina, che hanno viaggiato sei mesi nei container, hanno sostato due anni in frigo e per farle maturare più in fretta hanno usato gli altiforni».

Il pollo ha un gusto strano, sa di medicinale scaduto, la carne è dura, fibrosa e ogni boccone richiede dai 18 ai 25 minuti di ostinata masticazione: «Per forza, voi non siete più abituati ai polli ruspanti. In città mangiate polli allevati in batteria». Dicono batteria ma pensano lager. «Ho letto che in Giappone hanno manipolato il DNA dei polli, introducendo un gene che li costringe a tenere il becco sempre aperto. Li allevano in casa come bidoni della spazzatura per l’organico, quando sono pieni passa l’incaricato che li ritira e consegna un animale vuoto. La ditta li macella per farne degli hamburger da spedire in tutto il mondo».

Il pranzo si conclude con i dolci, la crostata fatta con la «nostra» marmellata, con la «nostra» frutta e senza aggiunta di zucchero (purtroppo!); la torta fatta con le «nostre» nocciole e fa niente per quel dente scheggiato da un guscio finito nella torta. Un digestivo? Ecco il «nostro» nocino, fatto in casa, oleoso e nero come l’inferno, il gusto è un mix fra l’inchiostro di seppia e il lucido da scarpe, la bottiglia va tenuta capovolta per un quarto d’ora per farne scendere tanto da riempire un bicchierino. Mentre lo bevi spiano le tue reazioni: «La senti la noce?» e il tuo stomaco d’ora in poi dividerà gli anni in «prima del nocino» e «dopo il nocino». Anche il vino «l’abbiamo fatto con le nostre mani, o meglio con i nostri piedi». Non ci sono due bottiglie uguali a pagarle oro, ogni volta che una viene stappata è un terno al lotto. Due volte su tre, dopo l’assaggio, il verdetto: «Questo sarà un ottimo aceto».

Al pranzo fa seguito la visita alla proprietà: orto, frutteto, vigna, cantina. La sosta più lunga sarà in dispensa, nella sala con il pavimento in cotto e le travi di legno da cui pendono prosciutti e salami, con gli scaffali stipati di formaggi e di vasi di vetro ripieni di frutta e verdura. Nessuno ricorderà che tutti quei frutti della terra non sono saltati da soli a sistemarsi nei vasi. Quando al nostro arrivo ci avevano presentato la zia e la nonna si erano dimenticati di aggiungere che sono loro a sgobbare dall’alba fino a notte per raccogliere, pulire, tagliare, cuocere e sterilizzare tutto quel ben di Dio. «Come ho fatto finora a vivere senza la campagna?», ci chiediamo venendo via dalla fattoria dell’amico.

È fatta, siamo stati arruolati nell’esercito dei contadini di ritorno. Per prima cosa il neo convertito cerca su internet cataloghi di attrezzi agricoli e di sementi. Poi ordina su Amazon una motozappa sulla quale, come per gli elettrodomestici, basta sostituire un pezzo per modificare la funzione. Semplicissima da usare, è sufficiente aver seguito un corso di due anni al MIT di Boston. Quanto alle sementi non stiamo a dar retta ai contadini, si sa, sono attaccati alle tradizioni, fosse per loro saremmo ancora all’età della pietra. Ordiniamo i seguenti semi: zucchine argentine, rape norvegesi, melanzane dell’Andalusia, insalata della Patagonia, non sarà qualche grado di temperatura in più o in meno a impedire loro di crescere.

Quanto agli animali, per uno che si vede come gentleman farmer, il primo acquisto non può essere che un cavallo; il secondo un pavone, così bello quando fa la ruota, peccato che lanci un urlo gutturale che terrorizza i bambini. La prova del fuoco per il neo contadino arriverà alle feste di fine anno, quando scoprirà che conigli e galline non si possono dare a pensione come si fa con i cani e i gatti per andare a sciare.

Il Torinese che ha riscoperto la campagna lo si riconosce dal fatto che offre ad amici e colleghi carrettate di verdura, giunta tutta insieme a maturazione e perché va in cerca dei suoi simili con i quali può parlare della sua nuova passione. Potrebbe anche scoppiare la Terza guerra mondiale e loro non smetterebbero di discutere su quale è il momento giusto per piantare i ravanelli.