Nell’era della comunicazione «virale», il virus è giunto davvero, microscopico ma reale. Finora la nostra preoccupazione andava ai telefonini e ai computer, esposti ai «bachi» e alle infezioni informatiche («malware») architettate chissà dove. E invece ci ritroviamo ricacciati indietro, in epoche in cui imperversavano epidemie come la peste, il vaiolo e il colera, prigionieri di paure ataviche e allucinazioni notturne. L’Occidente ipertecnologico e immateriale si ritrova anch’esso vulnerabile, una «società del rischio» (Ulrich Beck) in questo molto simile alle comunità del passato che nulla sapevano di agenti patogeni, questi «cigni neri» che ogni tanto irrompevano nella vita degli individui, sconvolgendo ritmi e abitudini. Come se non bastassero gli orrori che ogni giorno vediamo scorrere sugli schermi televisivi – dai bombardamenti all’emergenza profughi, dagli attentati all’invasione delle locuste, dal clima impazzito ai rigurgiti razzisti – eccoci ora alle prese con un nemico perfido ed inafferrabile, contro il quale non sappiamo bene quali armi impugnare. Anche perché tutto il nostro schema di difesa è stato pensato in un’ottica diversa, quella fondata sulla logica amico-nemico.
Di questo riflesso difensivo, la Svizzera rappresenta un caso esemplare; un dispositivo nato già alla fine dell’Ottocento e via via perfezionato nel Novecento, soprattutto nel corso dei due conflitti mondiali e della lunga guerra fredda. La strategia maturata nelle fasi acute di crisi internazionale prevedeva la fortificazione dell’arco alpino, trasformato in «ridotto» sul modello delle roccaforti medievali: anelli di cinta separati da fossati con al centro un torrione poderoso, e apparentemente inespugnabile, detto «maschio». Da questo baluardo roccioso, il cuore delle Alpi, sarebbe partita la controffensiva per liberare il paese dallo straniero. Ma cosa sarebbe successo se le truppe nemiche avessero fatto ricorso alle armi non convenzionali, a ordigni atomici e a sostanze chimiche e batteriologiche? In questo caso occorreva immediatamente recarsi nei rifugi, privati o pubblici, bunker preventivamente attrezzati e dotati di scorte alimentari: «Il rifugio offre la migliore protezione contro gli aggressivi chimici. Se siete colti di sorpresa all’aperto, mettete subito la maschera antigas», raccomandava il prontuario Difesa civile distribuito a tutti i fuochi nel 1969.
Rifugi, maschera antigas, provviste per quattordici giorni (sopravvivenza) o per due mesi (riserva casalinga in caso di sospensione degli approvvigionamenti): molte generazioni sono cresciute in questo clima d’assedio permanente e di una sempre possibile invasione da parte degli eserciti del Patto di Varsavia agli ordini del Cremlino. Ma anche in caso di attacco proditorio non bisognava perdersi d’animo, e mantenere intatta la fiducia nei comandi, giacché «le autorità sanitarie dispongono di grandi riserve di vaccini e d’insetticidi e ordinano disinfezioni, sbarramenti e quarantene».
Dalla pubblicazione del manuale voluto dal Dipartimento federale di giustizia e polizia è trascorso oltre mezzo secolo. Ma già allora buona parte di quel decalogo appariva slegato dalla realtà e maldestramente rassicurante, figuriamoci oggi. Anche la protezione civile andrebbe ricalibrata e riorientata sulla base dei nuovi pericoli, provenienti da paesi ai quali abbiamo appaltato la produzione di sostanze salvavita, come i princìpi attivi dei farmaci. Dal continente asiatico, l’odierna «fabbrica del mondo», importiamo quasi tutto, dal virus alle mascherine antivirus… Abbiamo in patria una delle industrie più agguerrite del pianeta, l’industria farmaceutica, eppure anche questa branca dipende sempre più dai produttori cinesi (lo stesso avviene nelle telecomunicazioni 5G). Dal Covid-19 occorre trarre la lezione che un’eccessiva dipendenza dall’estero in questi campi moltiplica i fattori di debolezza, e che in futuro bisognerà ripensare sia la difesa, sia l’intera protezione civile, con al centro il sistema sanitario, la ricerca e le cure. La vecchia maschera antigas lasciamola negli arsenali, relitto del gelo Usa-Urss.