Clima, aspettando la Cina

/ 20.11.2017
di Peter Schiesser

Il messaggio della 23.esima conferenza internazionale sul clima svoltasi a Berlino è: ora alle parole seguano i fatti, l’anno prossimo a Katovice, in Polonia, si dovranno stabilire le regole per l’attuazione degli Accordi di Parigi. Lo hanno sottolineato con forza il presidente francese Macron e la cancelliera tedesca Merkel, i quali non sono però riusciti ad evitare che dalle loro parole trapelasse anche un altro messaggio: di questo passo non ce la faremo a mantenere entro i 2 gradi celsius l’aumento della temperatura atmosferica; l’obiettivo minimo, mancato il quale il clima muterà oltre la prevedibilità, ci sta sfuggendo, è stato perso troppo tempo in passato, e ora lo sviluppo industriale ed economico in corso in Asia, soprattutto ma non solo in Cina e in India, impedisce che possa venir fermata entro breve la crescita globale delle emissioni di CO2. Siamo condannati a subire le conseguenze dei mutamenti climatici indotti dalla nostra civiltà. A dire il vero, ciò sta già avvenendo, ma per ora troppo lontano da casa nostra per farci sentire che questa è la più grande sfida presente-futura dell’umanità.

Va tuttavia detto che i ritardi e le difficoltà di implementazione degli obiettivi per la salvaguardia del clima non fanno desistere dal volerli raggiungere, non fosse che per evitare conseguenze ancora più gravi e per permettere di ritrovare un equilibrio nel prossimo secolo. La cancelliera Merkel ha riconosciuto che gli obiettivi che si era posta la Germania sono forse troppo ambiziosi (riduzione, rispetto al 1990, del 40 per cento delle emissioni nocive entro il 2020), ma si arriva vicino (il 30 per cento è considerato realistico); il presidente Macron ha annunciato di voler chiudere tutte le centrali a carbone francesi entro il 2021. Germania e Francia danno l’esempio non solo a parole, entrambi, come anche Svezia, Gran Bretagna e persino gli Stati Uniti (in totale 21 paesi), sono riusciti in questi anni a combinare crescita economica e riduzione delle emissioni di CO2.

Ma al di là del voltafaccia di Trump sugli Accordi di Parigi, che a onor del vero viene ignorato da numerosi Stati dell’Unione, sono le economie emergenti il nocciolo del problema, oggi. La Cina è da qualche anno il paese che produce più CO2 al mondo e stima di raggiungere il picco solo nel 2030, dopodiché le emissioni dovrebbero cominciare decrescere e la Cina diventare sempre più verde (Xi Jinping ha promesso di voler essere leader mondiale nella lotta ai cambiamenti climatici). Intanto, Delhi rincorre da vicino Pechino nella gara a chi inquina di più e il governo Modi non intende abbandonare il carbone, motore del miracolo economico indiano.

Ma che cosa ci dicono le cifre? Le stime del Global Carbon Project indicano un nuovo aumento delle emissioni di gas ad effetto serra nel 2017, dopo 3 anni di stasi. È bastato che l’economia della Cina tornasse a crescere a ritmi più sostenuti, come nei programmi del governo cinese (puntando deliberatamente sul carbone), seguita in questo dall’India (che però ha ridotto il suo aumento annuo dal 6 al 2 percento), per far crescere del 2 per cento circa la quantità mondiale di emissioni di CO2 a 41,6 miliardi di tonnellate (di cui 36,8 di origine fossile e industriale). Negli Stati Uniti la diminuzione delle emissioni è rallentata e l’atteggiamento dell’Amministrazione Trump potrebbe in futuro avere un impatto negativo. Insomma, decisiva, nella lotta ai cambiamenti climatici diventa sempre di più la Cina. Sarà il colosso asiatico a stabilire le tendenze globali del futuro: se si trasformerà in un gigante delle energie rinnovabili, il mondo imboccherà una via, se non saprà liberarsi del carbone, un’altra.