Le vacanze scolastiche durano tre mesi, quelle dei genitori, quando va bene, venti giorni. Al ritorno in città tocca ai nonni accompagnare i nipoti ai giardinetti nelle settimane che precedono la riapertura degli asili nido e delle scuole materne. Fanno la guardia all’altalena per regolare i turni e si dedicano ai confronti. È trascorso poco tempo dall’ultima volta in cui si sono visti, ma a quell’età i bambini fanno rapidi progressi. Solo che non tutti progrediscono allo stesso ritmo. Il duello fra nonne inizia con domande neutrali, di avvicinamento alla meta: «Che bel bambino! Quanto tempo ha?» «Venti mesi» «Come ti chiami bel bambino?» «Non parla ancora» «Non parla ancora? Beata lei! Il nostro ha cominciato a dieci mesi e ci ubriaca di parole; adesso che ha venti mesi come il suo gioca a scacchi, ha scoperto l’esistenza delle radici quadrate e passa il tempo a calcolarle a memoria. Poi pretende che andiamo a controllare se il risultato è giusto». Segue, con tono partecipe: «Ma non dovete preoccuparvi, prima o poi parlerà» «Ma noi non ci preoccupiamo affatto» «E fate bene, pare che Einstein abbia incominciato a parlare a cinque anni! Ma di Einstein ce n’è uno solo e del resto nella vita mica tutti devono fare gli scienziati. C’è bisogno anche di bravi artigiani». Un altro tema di confronto è la robustezza: «Com’è diventato grande! Dove siete stati?» «In montagna» «Non c’è niente come la montagna per far venire appetito al bambino!». Se la risposta fosse stata al mare allora non ci sarebbe stato niente come il mare eccetera eccetera. La nonna del bambino che invece è rimasto magro e fa storie a non finire per mangiare osserva serafica: «Ho letto su una rivista scientifica che se uno è obeso da bambino poi resta obeso per tutta la vita». (Da notare che la rivista evocata è sempre «scientifica» anche se non si è mai in grado di citarla la testata).
La vera sfida si gioca attorno ai giocattoli. I bambini molto piccoli non hanno nessun interesse per i loro giochi portati da casa mentre provano un’attrazione fatale per quelli degli altri. Senonché il bambino che fino a quel momento ha disdegnato la sua scavatrice, non appena l’altro bambino dimostra interesse e vorrebbe giocarci, l’afferra e se la stringe al petto come se fosse la cosa che ha di più cara al mondo. A questo punto entrano in gioco perlopiù gli uomini in veste di nonni: «Lascia stare quel secchiello, non lo vedi che è di quel bambino? Usa i tuoi giochi che, detto tra parentesi, valgono molto di più di quel secchiello. Ricordati: quello che è tuo è tuo e quello degli altri è degli altri». Si guardano attorno in cerca di approvazione: «Devono imparare fin da piccoli». Se una nonna, per evitare quei piccoli drammi, non s’è portata dietro nessun gioco, scatta la filantropia: «Su, non fare i capricci, fai giocare anche l’altro bambino. Non bisogna essere egoisti. Tu hai tanti giochi, non vedi che lui non ha niente, neanche uno straccio di paletta?». Talvolta i pargoletti che a malapena si reggono in piedi per loro misteriose vie di comunicazione trovano un accordo e giocano insieme pacificamente a riempire e svuotare di terra dei semplici bicchierini di carta, snobbando i costosi marchingegni che i parenti si sono portati da casa. È il momento più gravido di minacce perché, mentre i nonni si rilassano compiaciuti per lo spettacolo di civile convivenza, due metri più in là e uno più in basso, senza segnali di preavviso, scoppia un temporale violentissimo che fa volare palate di terra usate come arma impropria. È il segnale della diaspora, ognuno afferra il bambino di sua competenza e si allontana in una direzione diversa da quella degli altri, spazzolando via la terra dai vestiti e dai capelli e mormorando in maniera udibile: «Se uno mette al mondo un figlio poi dovrebbe anche insegnargli la buona educazione!».
Oltre ai nonni e alle nonne ci sono ai giardini anche le tate. Quelle italiane sono affettuose e apprensive come le mamme e si riconoscono perché parlano sempre di feste di compleanno da organizzare. Le tate straniere arrivano, si siedono su una panchina, aprono un libro o accendono un telefono e ignorano cosa stia facendo il bambino che è stato loro affidato. Pensano che sia giusto così, che sia deleterio stargli sempre addosso, non diventerà mai autonomo. Niente paura, quel povero bambino «abbandonato a se stesso» non corre alcun pericolo, è avvolto da una fitta rete di sguardi degli adulti che mescolano apprensione e riprovazione: «Lo lascia giocare con la terra!». Giocare con la terra è il massimo della depravazione per un bambino torinese che, non appena s’azzarda a imitare il coetaneo affidato alla tata straniera, viene strattonato ed energicamente frizionato con gran dispendio di salviette umide. Il bravo bambino torinese impara molto presto, e già verso i due anni non pasticcia più con la terra. Ha imparato alla perfezione che «quello che è suo è suo e quello degli altri è degli altri».