Ciao, sono io. Io chi?

/ 25.06.2018
di Maria Bettetini

Dopo un iniziale quanto effimero entusiasmo, vent’anni fa non ebbero grande successo i videotelefoni e videocitofoni. C’era una divertente pubblicità, cartelloni con scritto «Io chi?». «Io» rispondiamo al «chi è» di amici e parenti, e di solito questo basta, se ci conosciamo bene saprai riconoscere la mia voce. Allora sembrò invadente riprendere il volto del richiedente apertura del portone, magari è sudato o si sta mettendo le dita nel naso. Per non parlare poi del videotelefono, in grado di sorprenderti a tutte le ore nell’intimità della casa, più o meno in disordine, déshabillé, in pantofole. Era anche ignoranza, come quando da bambini (molto piccoli, ci tengo a sottolineare) discutevamo coi fratelli se fosse opportuno o no mettere il pigiamino davanti alla televisione accesa, come richiesto dalla mamma. Quelli dentro la tv ci vedevano o no? Nel dubbio, ci andavamo a vestire dietro il divano, finché una grassa risata di papà, a cui era giunta voce dei nostri dubbi, chiuse il dibattito. Paure infantili, dovute alla scarsa conoscenza del mezzo.

Si temeva un’invasione dello spazio privato, del sacrosanto diritto di non mostrare la propria faccia. Il volto è in effetti la parte per il tutto, è la persona. Sui documenti è richiesta la foto del volto, mi chiesero di rifare le foto per la carta di identità perché ero appena tornata da una settimana di mare e quindi «troppo abbronzata». Mi ritenni anche un po’ offesa, perché non giudicavano normale il mio colorito? Magari ero una ricca ereditiera sempre in vacanza. Non furono sfiorati dal dubbio e perdemmo un sacco di tempo. Dunque, il volto, la faccia. Quel pròsopon greco da cui il latino ha ricavato la persona. Però pròsopon in greco era la maschera degli attori, non precisamente il volto. Quando lo appurai, tanto tempo fa, rimasi malissimo: come sarebbe a dire che il nostro volto è una maschera, un qualcosa di posticcio che nasconde la vera personalità? Ma, ancora una volta, l’ignoranza deviava le domande. La maschera degli attori greci, infatti, solo incidentalmente nascondeva il volto dell’uomo, il suo fine era quello di indicare con precisione un’identità. Gli attori erano tutti uomini, senza, naturalmente, l’ausilio di microfoni e riflettori. La recitazione aveva come fine quello di condurre lo spettatore a comprendere i fatti rappresentati, non tanto a mostrare il dissidio interiore dei personaggi. Per questo l’attore indossava scomodi sandali, zatteroni alti anche due spanne, per essere visto anche dai posti più lontani. Per questo aveva una maschera, di cuoio o di legno, che allo stesso tempo faceva rimbombare la voce, come un microfono naturale, e fungeva da didascalia.

Non c’era spazio per la fantasia. Lo spettatore, qualunque cultura avesse, non doveva essere distratto dalla fatica di capire chi stesse parlando e in che relazione fosse con gli altri personaggi, per potersi concentrare sulle parole dette e sui fatti rappresentati. Prendiamo una tragedia a tutti nota, l’Edipo re di Sofocle. Edipo è figlio di Laio e Giocasta, una profezia aveva detto di lui che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Mandato a morire sul monte Citerone, il piccolo (anche azzoppato, questo significa Edipo) è tratto in salvo dal solito pastore e portato al re di Corinto che lo adotta. Dico il solito pastore, perché di ragazzini portati a morire e salvati è piena ogni mitologia, da Romolo e Remo a Biancaneve, da Paride a Mowgli. Edipo cresce pensando di essere figlio del re di Corinto, quindi quando apprende il contenuto della profezia fugge lontano dai «genitori» e andando verso Tebe uccide il suo vero padre per un problema di precedenze stradali, risolve l’indovinello della Sfinge e in premio sposa la regina vedova, che è sua madre.

Per fortuna gli spettatori conoscono già la vicenda e le maschere mostrano chi è chi fin dall’inizio della tragedia, che presenta Tebe colpita dalla punizione divina della peste, Edipo desideroso di conoscere il perché della terribile piaga, Tiresia il cieco che tenta di dissuaderlo: meglio non sapere. Che tua moglie, madre dei tuoi quattro figli, è anche tua madre, con tutte le aberrazioni conseguenti. Freud poi ha usato il mito per spiegare alcuni comportamenti (e alcuni pensano che li spieghi tutti i comportamenti, ma è un’inaccettabile semplificazione). A noi è servito ricordare l’importanza del pròsopon per identificare il personaggio. Così il nostro volto identifica la nostra persona. Che improvvisamente nessuno vuole più proteggere dagli sguardi indiscreti. Tutti desiderano pubblicare, nel senso di rendere pubbliche le proprie immagini, i propri ritratti. Spesso sono volti dallo sguardo obliquo, coperti da capelli e copricapi. Come a dire eccomi, ma non sono proprio questo. Ci sono anche io, ma non mi avrete del tutto, guardate e non giudicate. A questi bambini, chi potrà far sapere che si esiste anche se non ci si mostra, anche fuori dal palcoscenico?