«L’Italia non è più lo zerbino dell’Europa»: la parola italiana «zerbino» deriva dall’arabo «zirby» (tappeto d’ingresso per pulirsi le scarpe). E Zerbino è un personaggio inventato da Ludovico Ariosto: il principe ereditario di Scozia innamorato della saracena Isabella al punto da rapirla, con il risultato di essere non respinto ma ricambiato. È un contrappasso che Matteo Salvini (1) abbia usato (inconsapevolmente) una parola araba per tenere a distanza gli arabi. Usciti dalla porta (dai porti), rientrano necessariamente dalla finestra (della lingua). La discutibile efficacia espressiva del ministro degli Interni italiano ha radici nel suo esasperato e pacchiano parlar comune, ordinario, basso: il suo populismo politico è simmetrico al suo populismo stilistico. Ma se uno statista dice «è finita la pacchia» a proposito di un fenomeno migratorio che coinvolge milioni di persone in fuga dai loro paesi rischiando il naufragio in mare, allora il populismo diventa oltraggio dell’etica, del dolore, della morte (voto: inclassificabile).
Il mezzo migliore per trasmettere queste frasi da teppista è ovviamente la rete: non per nulla Salvini è il ministro più social che si sia mai visto, non fa altro che chattare con Facebook su tutto e su tutti, sulle banalità come sulle questioni-chiave della politica mondiale: che si trovi in aereo, al Viminale, sul divano di casa, in treno, a Palazzo Chigi o in strada, non fa che smanettare sul suo Smartphone, usato come i banditi usavano la colt nel Far West, estraendola per sparare e poi riponendola nella fondina sempre con l’indice pronto sul grilletto. Ci sono paesi che «si devono ribeccare» i rom in eccesso, ha detto: «ribeccare»… È un modo di esibire fieramente il linguaggio da bettola o da trivio con la certezza che piace molto al cosiddetto popolo.
Salvini è visivamente l’opposto di Donald Trump, niente cravatte dal nodo grosso, niente capelli color carota, ma oltre alla evidente mitomania che li accomuna anche i modi espressivi sono simili. Adottare una comunicazione fulminea, diretta, sporca, per poter spingere il messaggio sempre ai suoi estremi: buttarla là, aspettare la reazione o lo scandalo, e per smentire c’è sempre tempo. In tal senso, in opposizione a questi modelli diffusi di demagogia comunicativa, è stupefacente la severa risposta data dal presidente francese Emmanuel Macron al ragazzo che gli si è rivolto con eccessiva confidenza durante la cerimonia per l’anniversario del 18 giugno (è il giorno del 1940 in cui De Gaulle fece appello dalla BBC per combattere le forze nazifasciste). Nello stringergli la mano un adolescente gli ha biascicato: «Comment ça va, Manu?», come va Manu?, quasi parlasse con suo cugino. Salvini gli avrebbe battuto una pacca sulla spalla, forse gli avrebbe dato un cinque, Macron (che diversamente da Salvini non indossa i jeans nelle occasioni ufficiali) non ci ha pensato due volte a dirgliene quattro: «No no no, sei qui per una cerimonia ufficiale e ti comporti bene, tu puoi fare l’imbecille ma oggi ci sono la Marsigliese e i canti dei partigiani, mi devi chiamare signor presidente della Repubblica o signore, d’accordo?». «Sì signore» è stata la replica forse un po’ sfottente. Allora Macron ha aggiunto: «E se un giorno vorrai fare la rivoluzione prendi prima la laurea e poi dai lezioni agli altri». Il tono del presidente forse suonava un po’ paternalista e la risposta troppo lunga, ma cedo volentieri alla tentazione di dare 6– alla sua rigida antipatia: cioè alla sua non-voglia di assecondare le pulsioni dei cittadini, la cosiddetta pancia della gente. Senza dimenticare il magistrale richiamo al contegno richiesto dall’occasione. «Mi raccomando – dicevano un tempo i genitori ai figli nell’imminenza di un’occasione pubblica – comportatevi come si deve». Quel giovane parigino non aveva idea della cornice in cui si trovava, non aveva alcuna idea del registro da usare in certe circostanze, non riusciva a distinguere tra il suo compagno di banco e il presidente della Repubblica. Somiglia a un ministro degli Interni che dice «è finita la pacchia», inconsapevole del fatto che il suo ruolo gli imporrebbe ben altro codice linguistico. La scuola dovrebbe insegnare, oltre all’uso dei congiuntivi, anche a dosare i registri a seconda del contesto.
A proposito di linguaggio informale, è uscito per il Mulino un libro del linguista Nicola De Blasi su una delle parole più famose al mondo: «Ciao» (5+), derivato dal veneziano «sciavo» che significa «schiavo». Era usato in origine per salutare qualcuno ponendosi al suo servizio. È diventato buongiorno, buonasera, arrivederci, salve o addio rivolto a un tu amico o familiare. Si è diffuso ovunque e si va frantumando nelle nostre telefonate, che sempre più si concludono con una raffica isterica e iperconfidenziale: «cià cià cià cià cià cià…». Un po’ liquidatorio, come per dire: vai ché ho fretta. Per Salvini sarebbe l’ideale per chiudere un Consiglio dei ministri, ma meglio non farglielo sapere.