L’unità della persona è un dato di fatto che ci viene incontro ogni giorno. Quando una buona notizia cancella quel fastidioso mal di testa, quando il brutto tempo ci fa iniziare la giornata con lo sguardo di un pitbull alla catena. Quando il troppo amore fa sì che non vediamo, neanche sforzandoci, i pasticci dei figli, gli errori dell’amato, dell’amata. I filosofi hanno cercato spiegazioni di ogni tipo, per comprendere questa misteriosa unione di materia e spirito, di bisogni primari e di sopraffine doti intellettuali. Chi ha detto essere il corpo una prigione da cui l’anima si libererà, ed è bene che cominci fin da piccola (così Platone e tutti i platonici nei secoli), chi ha parlato di compenetrazione tra forma e materia informe (Aristotele, Tommaso, fino ai personalismi del Novecento). Chi ha ritenuto un errore la differenza tra corpo e spirito, essendo entrambi modi di apparire di un’unica sostanza (così Spinoza), oppure essendo l’anima fatta della stessa materia del corpo (Marx). Poi Hegel vide in tutto solo manifestazioni dello Spirito assoluto nel suo sviluppo dialettico, Bergson parlò di «slancio vitale», gli analitici non dissero nulla perché ritennero non corretto e inutile ogni discorso su ciò che sfugge ai sensi e alle sperimentazioni.
Ma insomma, filosofi o no, non ci vuole un trattato per capire che nessuna pratica ascetica può portarmi a sentire altro da me, estranea a questa macchina meravigliosa che funziona con un motorino da settanta-ottanta battiti al minuto (novanta-cento per i tachicardici come me, quaranta-cinquanta per i fondisti, trentaquattro – a riposo – per il grande Gino Bartali). Non posso non sentire il dolore di una martellata sul piede: posso voler mostrare, agli altri ma anche a me stesso, che non me ne importa nulla, e quindi con un buon allenamento contenere le reazioni istintive, o al limite posso tentare una sorta di autoipnosi, posto che abbia un senso spegnere il campanello d’allarme che serve proprio a prendermi cura del corpo e a salvarmi la vita. Se chi ha in mano il martello volesse continuare nel lavoro iniziato, sarà meglio reagire piuttosto che sorridere beati in attesa della martellata sui denti.
Orbene, c’è un aspetto di questa unità che è particolarmente interessante. Essa ritorna infatti in un’attività che ci occupa grandemente, l’attività del parlare. Senza scomodare la solita scena di Palombella Rossa, dove a bordo piscina Nanni Moretti schiaffeggia una giornalista che ha usato la parola trend (chi parla male etc.), è vero che da questa commistione di aria, mossa dagli organi vocali, con un’idea sorgono le parole. Le parole parlano di noi: è difficile nascondere non solo l’accento, ma anche la terminologia cui siamo abituati. Gli intercalari poco eleganti, per esempio, scapperanno anche in momenti poco opportuni, a una cena con i futuri suoceri o durante una presentazione importante. Credo che anche questi siano dati di fatto, da come parli capisco chi sei, perché il tuo io è tutto in ciò che fai, anima e corpo, è il caso di dire.
Ora la domandona: quale oscuro trauma ha portato vittime di terribili abusi a utilizzare (per scritto!) i termini seguenti, fittizietà, tabuizzazione, popolo LGBTQIAPK, noismo. Per dire i primi che mi sono venuti in mente, e che ho trascritto con gravi difficoltà per il numero di zeta. Già «petaloso» non era bellissimo (e poi pare si trovi già in un testo di botanica del Seicento, non si sa se come refuso o con intenzione). Non è un granché anche usare neologia denotativa e neologia espressiva per intendere l’invenzione di parole a indicare oggetti nuovi oppure esprimere emozioni in maniera nuova. Però ci fa capire che a volte è utile e necessario creare parole nuove, come è accaduto con televisore, automobile nel secolo scorso, con università e carrozza secoli fa. Il poeta o chi tale si sente ha bisogno di esprimere sentimenti inusuali, Dante poteva «imparadisarsi», mentre vedeva l’universo che «si squaderna» nel Creatore.
Ma perché, perché scrivere fittizietà invece che falsità, essere fittizio, apparire costruito ad arte, sembrare non autentico, o fasullo, o ingannevole, o appartenente a un mondo virtuale, o al regno delle cose false, dei bugiardi, dei falsi testimoni. Perché tabuizzazione? E non far diventare indicibile, vergognoso, riprovevole (così non si userebbe nemmeno tabù, che va bene solo per gli antropologi e i mangiatori di liquerizie). noismo, mania di dire no a tutto. Ossia contraddire, ostacolare, rifiutare, controbattere, al limite dire di no, i noisti non esistono, esistono coloro che dicono sempre di no. Poi l’impronunciabile acronimo, letto in più di un programma di convegno, che comprende anche i pansessuali (va bene di tutto con tutti) e i kinky (da kink, ricciolo o garbuglio, per dire di attività ingarbugliate, che in questo caso sarebbero perverse). Non lo sanno che chi parla male pensa male, e chi pensa male vive male?