Catalogna, provocazione riuscita

/ 09.10.2017
di Peter Schiesser

Incredibile come Mariano Rajoy sia potuto cascare tanto ingenuamente nella trappola di Carles Puigdemont. Ma come ha potuto pensare, il capo del governo spagnolo, che bastassero diecimila agenti inviati da Madrid per impedire a 2,2 milioni di catalani di andare a votare? Come ha potuto ignorare che in questo modo ci sarebbero stati scontri fisici e quindi ancora più lacerazioni fra catalani e spagnoli? Il presidente della Generalitat catalana ha avuto quel che cercava: immagini di agenti (quelli inviati da Madrid) che malmenavano inermi persone che rivendicavano il diritto di votare per l’indipendenza della Catalogna. Persino chi in patria e all’estero (quindi socialisti spagnoli e Unione europea per primi) riteneva illegale il referendum perché contrario alla Costituzione, ha severamente criticato la violenza scatenata dagli agenti mandati in Catalogna, come pure (solo in patria) l’ottusità del primo ministro Rajoy, non solo incapace di gestire la giornata elettorale del 1. ottobre, ma da anni sordo ad ogni richiesta di dialogo con gli indipendentisti catalani. 

Perché non ha lasciato correre le cose, Rajoy, come fece nel novembre del 2014? È vero che allora si votò con un paio di sotterfugi legali, non lo si poté definire referendum (solo una Consulta) e si votò in locali non istituzionali; questa volta invece lo scontro è stato frontale, con il governo centrale e con la corte costituzionale – difficile quindi ignorare la provocazione. Ma un po’ più di sangue freddo avrebbe permesso a Rajoy di vincere sia la battaglia della legalità, sia quella politica: in fondo, è davvero rappresentativo un referendum in cui non c’è un vero controllo su chi vota, in cui è possibile votare più di una volta e non c’è verifica dei risultati? Inoltre, possono davvero dirsi vincitori i separatisti catalani, se consideriamo che ha votato solo il 42 per cento degli aventi diritto (2,26 milioni di persone, rispetto ai 2,3 milioni della Consulta del 2014) e di questi il 90 per cento avrebbe votato a favore dell’indipendenza – quindi nemmeno quattro catalani su dieci?

Forse Mariano Rajoy non è la persona adatta per sanare la frattura che si è creata, lentamente, a partire dagli anni Novanta, fra Barcellona e Madrid. E storicamente una certa responsabilità, in questo senso, la porta anche il suo partito, il Partito popolare, che fece ricorso davanti alla Corte costituzionale per far naufragare il nuovo statuto sulle autonomie faticosamente raggiunto nel 2005 fra il parlamento nazionale e quello catalano. La Corte costituzionale accolse le tesi del Partito di Rajoy e nel 2010 modificò lo statuto, ciò che decretò indirettamente la nascita del nuovo movimento indipendentista catalano che, dapprima con Arturo Mas e oggi con il suo successore e ben più convinto secessionista Carles Puigdemont, ha raggiunto ora la sua maggiore vittoria.

Di certo non ci sarà mediazione europea, come vorrebbe Puigdemont: sarebbe un pericoloso precedente e potrebbe invogliare altri a imitare i catalani. Ma ci dovrà essere un profondo dibattito all’interno della Spagna su come affrontare la «questione catalana». Forse sarà necessario modificare la Costituzione spagnola per poter indire un referendum legale; di certo bisognerà trovare il modo di riportare le discussioni su binari meno emozionali: sarebbe così possibile compiere delle ampie e serene analisi del costo di un’indipendenza della Catalogna che vadano al di là dei facili calcoli dei nazionalisti catalani, per evitare di ritrovarsi nei pasticci come gli inglesi all’indomani della Brexit.